Il sacro è una dimensione che so che non mi appartiene ma che mi circonda e mi sovrasta. A volte può essere terribile, come la punizione divina, altre volte è il senso dell’immensità, reale e ben presente, rispetto alla nostra finitudine, percepita con lucida consapevolezza.
Salvatore Fricano: Lavarone 2008
L’inquietante fascino del Sacro?
Lavarone, 26 Agosto 2008
Certo è che se mettiamo a confronto il sentimento degli antichi – chiamiamoli pre-moderni – nei confronti del Sacro con il sentimento che anima, io credo, sparute minoranze dell’umanità mi coglie un senso di smarrimento.
Il sacro dovrebbe impegnarci totalmente, perché ci preme come una domanda che attende una risposta. Per qualcuno il sacro è necessario per dare un senso alle nostre azioni quotidiane, per altri, forse la maggior parte, è ciò che viene colto quando ci sente smarriti dinnanzi all’imprevisto: la malattia, la morte e la colpa.
Ebbene, sembra che la percezione del sacro valorizzi l’esperienza umana. Lo fa uscire dalla mera attività legata alla sopravvivenza e alla temporalità per proiettarlo, seppure in modo fugace, nella dimensione dell’eterno. Il sacro non può che essere eterno.
Sembra anche che noi siamo fatti per inchinarci dinnanzi al sacro. Il mistero della meraviglia, la curiosità per il mondo, lo stupore dell’uomo che medita hanno di fronte proprio la dimensione del totalmente altro, direbbe qualcuno.
Sembra anche che il Sacro rimandi al senso del tutto e al bene. Difficilmente qualcuno, credo, potrà tendere a percepire il Sacro come inefficienza, malvagità, noncuranza.
Insomma, il sacro è eterno, immenso, buono, pieno di senso. L’uomo, nella sua condizione ideale, di essere pensante, non può fare a meno di pensare queste sfaccettature e fa di tutto, anche quando lo trova impersonale, come lo ha trovato Spinoza, di mettersi in relazione con esso.
Io non ho le competenze per addentrarmi nelle risposte dei pensatori dinnanzi a tale tema: ad esempio, il rapporto inversamente proporzionale che ha individuato Kierkegaard fra Dio e l’uomo religioso, e di questo rispetto agli altri simili (più l’uomo è vicino a Dio, più è lontano dagli uomini, e viceversa), oppure l’anelito alla vita di lassù che vediamo maggiormente in un autore affascinante qual’è Plotino, oppure l’apparire dell’abisso nichilistico, senza più centro, ridato dall’uomo folle di Nietzsche, il silenzio che atterrisce Pascal, il sublime in Kant, il naufragio in Jaspers, ecc.
Posso però, se mi è concessa questa mia comunicazione, mettere in relazione quanto detto sul sacro sia con una notazione autobiografica sia con una riflessione, diciamo, attuale, legata cioè a come viene percepito l’”inquietante”, sperando di non andare fuori tema.
Fin da piccolo ho avuto una dimensione panica della natura, e soprattutto mi procurava un senso di immensità e di smarrimento la visione del mare. Per tutti i mesi estivi ero abituato a stare in campagna (in Sicilia, quando si dice campagna, significa, spesso, nei pressi del mare) e, dalla casetta di mio nonno, dove villeggiavamo, potevo vedere, vicinissimo, il mare. Di mattina e di pomeriggio ero abituato più che a vederlo, a toccarlo, a giocare in acqua con i miei cuginetti, a fare scherzi, a tuffarmi, ad andare sott’acqua, ad aprire gli occhi mentre ero giù, a vedere vicine le barche scalcinate dei pescatori. La sera, dalla casetta, a un centinaio di metri dalla spiaggia, potevo vedere il mare in un’altra dimensione: sereno, disteso, le barche erano puntini insignificanti e non notavo, ma sapevo che c’erano ancora, bagnanti. Il mare mi appariva come un tutto, anzi un Uno, dove le vicende che si svolgevano nei sui pressi, e anche al suo interno, non ne potevano mutare assolutamente l’aspetto. Un giorno, avevo 6 o 7 anni, chiesi a mia madre di svegliarmi presto, all’alba perché volevo vedere sorgere il sole. A mia madre quasi venne un colpo. Mi domandò perché e io tranquillamente risposi che sì, volevo proprio così. Con aria ancora sorpresa mia madre annuì. La mattina dopo, me lo ricordo ancora come se fosse ieri, tanto ero emozionato, venni svegliato da mia madre (potevano essere fra le 5,30 e le 6 meno un quarto, facendo un calcolo) e con tranquillità e sollecitudine mi procurai una sediola e mi sistemai in direzione verso levante. Avevo già intravisto il sole, ma mettermi dinnanzi, in tutta consapevolezza, mi permise di parlare quasi con quell’evento. Io domandavo, e il sole e il mare mi rispondevano. Oppure era il contrario, loro mi interpellavano, ed io avevo risposto. Cosa ci siamo esattamente detti, non lo so e continuo a non saperlo. Ma so sicurissimamente che qualcosa, da allora, ha agito in me. Ho vissuto quell’esperienza, e continuo a viverla nel ricordo, come una dimensione del “numinoso”[1], un appello alla coscienza di sé, e se proprio devo dirla tutta, la manifestazione concentrata del vero. Per me questo è il Sacro, cioè il Vero. Non so quale scrittore abbia detto che se lasciamo in una isola deserta un bimbo appena nato, dandogli la ventura di vivere gli anni della fanciullezza, ad un certo punto, dinnanzi al sorgere del sole, si sarebbe inchinato. Mi piace pensare che quello che ho vissuto direttamente io sia dunque un sentimento universale.
Devo ancora aggiungere che tale sentimento del vero, vissuto così fortemente ha continuato a maturare in una direzione che, nell’adolescenza, è diventata chiarissima. La grande curiosità di ciò che c’è di là, dall’altra parte. In certi momenti, e con grande tranquillità, ho desiderato ardentemente pensare il momento della mia morte, spinto proprio dal desiderio di vedere cosa c’è veramente, cosa a noi, di qua, viene celato. Tempo fa mi sono imbattuto in un testo di San Agostino, che riferisce, pressappoco, questo mio stesso sentimento. Voler morire per un desiderio di Verità, un vedere la verità faccia a faccia.
“[…]V’è tanto godimento nella contemplazione della verità, nei limiti in cui è possibile contemplarla, tanta purità, tanta perfezione, tanta certezza dell’oggetto, da far pensare che non s’era mai avuta scienza di qualche cosa, quando sembrava di averne. E affinché l’anima sia meno ostacolata nell’aderire tutta al tutto della verità, la morte, che prima si temeva, è desiderata come definitiva ricompensa, in quanto fuga totale e liberazione dal corpo.”[2]
Oppure, come ci racconta Seneca, il desiderio ardente da parte di Cano, scontratosi con Caligola e quindi aspettandosi la morte da parte del tiranno, di conoscere finalmente se l’anima fosse immortale o meno:
“[…]i suoi amici erano tristi, perché stavano per perdere un uomo di quel valore. Disse: «perché siete mesti? Voi vi state ancora chiedendo se l’anima è immortale; io, tra poco, lo saprò»”.
Un suo amico filosofo gli domandò quale fosse il suo stato d’animo e “[…]Cano rispose: «Mi sono proposto di fare attenzione, in quell’istante rapidissimo, se l’animo avverte di star uscendo»”[3].
Da quanto detto, riferite a queste mie vicende biografiche, mi risulta perciò difficile, se non impossibile, associare la categoria dell’inquietante al fascino del Sacro. Per me il Sacro è il vero, e il vero è bello e buono. Non ho nulla da temere dal Sacro, cioè dal Vero. Il vero, d’altra parte, si dovrebbe compiacere di chi lo ama. Non è forse questa la natura del filo-sofo?
Dunque, dove si nasconde l’inquientante? Non certo nella dimensione sacrale e divina, ma solo nella dimensione dell’umano. E l’inquietante si identifica con l’orrore[4]. L’orrore provocato dall’uomo, non penso ad una dimensione demonica che agisce per il tramite dell’uomo. L’uomo è già abbastanza malvagio da solo!
Non nego che episodi efferati siano sempre accaduti, e anche di terribilissimi. Però mi sembra che solo adesso, nei nostri tempi, l’orrore si è manifestato con assoluta trasparenza, senza giustificazioni cosiddette scientifiche (l’orrore nazista) e senza stampelle morali o religiose (l’orrore dell’inquisizione), come supporti.
Ho in mente, solo per citare alcuni casi recentissimi, di quel tale che, in Canada, il 30 luglio, è salito su un autobus e, mentre i passeggeri assistevano alla visione di un film, taglia la testa ad uno di loro, attraversa il corridoio e poi si siede. A quanto pare, avrebbe iniziato a mangiare la testa del malcapitato! Troveremo un Dante che possa nobilitare, poeticamente, tale gesto?
Subito dopo, in Grecia (4 agosto), un ragazzo taglia la testa alla fidanzata e la porta in giro per le strade dell’isoletta dove si trova. Un novello Esiodo racconterà un episodio di un Minotauro redivivo?
Per non parlare di quell’episodio, accaduto nel marzo di quest’anno, che veramente mi ha sconvolto e ne ho persino parlato in classe, interrompendo – è stato più forte del mio spirito professionale di docente – la mia esposizione su Spinoza. In Austria, un tecnico settantenne ha tenuto segregata una della sue figlie in un bunker, per tanti anni, per potersi accoppiare tranquillamente con la ragazza, avere dei figli e continuare una doppia vita, una in superficie e una negli inferi. Non è pazzo, ha detto che non è malvagio e che si sente un padre tutto sommato buono. Aveva scelto la figlia a cui voleva più bene, per non fare male ad altre ragazze!
Potrei riportare qui altri casi, e sicuramente voi potreste aiutarmi a ricordare altri episodi, ma in questo contesto, mi preme evidenziare non tanto le implicazioni morali oppure, scendendo a livello più basso, sociologiche o psicologiche, ma come viviamo ormai in un completo disincanto del mondo, riprendendo Weber. Cos’è questo orrore? Perché siamo così assuefatti? Perché i più giovani non hanno più paura dei cosiddetti film dell’orrore? Perché preghiamo di meno e tali fatti riempiono sempre più la nostra vita associata? Semplicemente accadono, ne prendiamo atto e, fatto eclatante per la specie umana, non ne siamo sgomenti per tutta la vita, ma solo per quell’attimo legato alla chiacchiera con il nostro simile, buono come noi!
Io dico questo: l’orrore prodotto dall’uomo c’è sempre stato, ma solo adesso è manifesto. Ormai è un fatto, che non può essere smentito o mascherato. E’ il risultato di un venir meno della dimensione collettiva del Sacro, di quella dimensione che ci ha condotto a discuterne fin qui.
In conclusione, è scomparsa, a livello generale ma non del tutto, la dimensione panica sacrale, non umana, e ciò ha fatto scaturire l’orribilità insita nelle azioni umane. Il Sacro è distante, se non assente[5] e l’orrore è presente, anzi è di casa, abita qui, nell’animo del nostro mondo contemporaneo.
Chissà se ancora un Dio ci può salvare!
[1] Il mio professore di filosofia morale, il prof. Antonino Noto, ci aveva edotto sulla categoria del “numinoso”, proposta per la prima volta da Walter Otto, filologo e grecista, come un sentimento originario e specifico dell’essere umano. Il numinoso si manifesta come “mysterium” ma anche come “fascinans”. E’ inevitabile un senso di angoscia, che l’uomo esorcizza, letteralmente, con il rito.
[2] S. Agostino, La grandezza dell’anima, cap. 33, par. 76.
[3] Seneca, Tranquillità dell’animo, cap. 14, par. 8 – 9.
[4] Non certo l’orrore metafisico di cui parla Kolakowsky, incentrato sulle inconcludenti ricerche millenarie dei filosofi nelle alte regioni della metafisica.
[5] Direbbe Levinas.