Pubblichiamo la seconda parte dell’intervento dell’amico Francesco Dipalo, tenutosi a Santa Fosca, la mattina del 26 agosto 2019.
Emozioni distruttive è la cronaca dell’incontro (l’ottavo di “Mind and Life”) avvenuto a Dharamsala e presieduto dal quattordicesimo Dalai Lama (Tenzin Gyatso) nel marzo del 2000, cui hanno partecipato psicologi, neuroscienziati, filosofi di entrambe le tradizioni (occidentale ed orientale), nonché monaci buddisti di diverse scuole. L’autore del libro, Daniel Goleman, è uno psicologo statunitense di fama mondiale.
Di questo libro prenderemo sommariamente in considerazione il cap. 4, dedicato alla Psicologia Buddhista.
Psicologia Buddhista
«Il Buddhismo – ebbe a dire un monaco tibetano nel 1974 – arriverà all’Occidente in forma di psicologia.»
Una tradizione, quella buddhista, antica di 2500 anni. Un tentativo di rispondere alle stesse domande che si pone oggi la psicologia moderna, di matrice scientifica ed occidentale.
Il Buddhismo si presenta, in realtà, come una galassia di tradizioni differenti, sia pure tutte quante riconducibili all’insegnamento originario del Buddha storico. Dunque, è più corretto parlare di “psicologie buddhiste” piuttosto che di “psicologia buddhista”. La fonte da cui derivano le diverse tradizioni è il cosiddetto “Abhidharma” (“Dottrina ultima”), codificato nel primo millennio dopo la morte di Gautama Buddha (566-486 a.C.).
Queste psicologie, allo stesso tempo teoriche e applicate, mettono a punto metodi pratici per aiutare i praticanti, siano essi laici, monaci o insegnanti, a disciplinare e regolare la mente e il cuore per elevarsi a uno stato ideale (mente-Buddha).
Prenderemo qui in considerazione, in particolare, la tradizione tibetana.
Innanzitutto, va sottolineato lo iato tra il termine nella tradizione occidentale e quello buddhista per definire il concetto di emozione. “Emozione” è un vocabolo molto generico e deriva dalla radice latina emovere – l’idea di qualcosa che mette la mente in movimento verso un’azione che può essere dannosa, neutra o positiva.
Nel contesto del Buddhismo, invece, si chiama “emozione” qualcosa che condiziona la mente, facendole adottare una certa visione della realtà.
Lo iato tra apparenza ed essenza delle cose
La “nocività” di un’emozione, dunque, dal punto di vista buddhista non si misura tanto in base alla “distruttività” dell’azione che provoca o potrebbe provocare, quanto piuttosto dal fatto che essa distorca la percezione del reale di chi la prova. Il problema è fondamentalmente “cognitivo”. Il resto è solo una conseguenza di tale “ignoranza” o “illusione”.
In linea di massima, un’emozione distruttiva – alla quale ci si riferisce anche come a un fattore che “oscura” o “affligge” – è qualcosa che impedisce alla mente di riconoscere la realtà per quello che è. In presenza di un’emozione distruttiva, ci sarà sempre uno iato tra apparenza ed essenza delle cose.
Le emozioni che oscurano limitano, quindi, la libertà dell’individuo, concatenando i pensieri in un modo che ci costringe a pensare, parlare e agire in base a dei condizionamenti. Ossia, in base ad una visione distorta, non veritiera della realtà. La libertà dipende, spinozianamente, da una concezione delle cose come sono.
Difatti, le emozioni costruttive vanno di pari passo con una valutazione corretta della natura di quanto viene percepito; sono fondate su un uso “sano”, “appropriato” della “ragione”.
Il desiderio di nuocere
Le emozioni si definiscono “distruttive” in quanto recano danno a se stessi o a qualcun altro. Le azioni in sé non sono buone o cattive in base ad un decalogo astratto o eteronomo (basato, p.e., sulla Rivelazione divina). Non esistono il bene e il male in termini assoluti. Essi esistono soltanto in termini relativi, ovvero il danno in termini di infelicità o di sofferenza che i nostri pensieri e le nostre azioni provocano in noi o in altri. E questo è direttamente misurabile per via esperienziale. La psicologia buddhista prende in considerazione sia le motivazioni che le conseguenze delle nostre azioni.
Le emozioni “costruttive” e “distruttive” vanno anche valutate in termini dialettici, di equilibrio reciproco. Compassione e odio, p.e., sono emozioni antitetiche. L’una può equilibrare l’altra, ovvero fungere da “antidoto” all’altra. Di conseguenza, più si coltivano l’affetto, la compassione e l’altruismo – più essi pervadono la nostra mente – e più il loro opposto, il desiderio di recare danno, è costretto a diminuire e forse a scomparire. Come dire, chiodo schiaccia chiodo.
Il sentimento di fondo è l’autoconservazione. Non ci si fa del male volendolo. La diminuzione di potenza o di benessere è sempre causata dall’ignoranza, ovvero dall’egocentrismo (l’illusione di un sé permanente mentre la realtà è anatta, non-sé, non-sostanziale).
Le ottantaquattromila emozioni negative
Ciò che chiamiamo ora “avversione”, ora “attrazione”, va commisurato all’idea illusoria di questo “attaccamento all’ego”. Sentiamo che questo “io” – che pensiamo essere il centro della nostra personalità, ciò che permane al di sotto del mutamento – è vulnerabile e che dobbiamo proteggerlo e compiacerlo. Dunque, proviamo “avversione” per qualsiasi cosa riteniamo possa minacciare questo “io”, e “attrazione” verso tutto ciò che possa piacergli o rassicurarlo, facendolo sentire sicuro e felice.
Da queste due emozioni fondamentali derivano tutte le altre. Nelle scritture buddhiste si parla di ben ottantaquattromila tipi di emozioni negative (tanto per sottolineare la complessità della psiche umana). Le principali sono queste cinque: odio, attaccamento, ignoranza, orgoglio e gelosia (i cosiddetti cinque veleni).
L’odio (declinato in tante maniere diverse: rabbia, rancore, risentimento, invidia, animosità, violenza, ecc.) è un’emozione di autodifesa: distruggere la felicità di qualcun altro che è visto come un ostacolo al proprio io.
L’attaccamento (brama, passione, senso del possesso, ecc.) ha essenzialmente a che fare con un tipo di legame che fa vedere le cose in maniera non veritiera. Si basa fondamentalmente sull’illusione che le cose siano permanenti e che debbano disporsi in modo da compiacere un io altrettanto immutabile.
Poi c’è l’ignoranza che, di solito, non è considerata un’emozione nel contesto della cultura occidentale. Essa costituisce un fattore mentale che impedisce il riconoscimento della realtà per quello che è, rendendoci incapaci di distinguere tra ciò che è opportuno fare o non fare per il raggiungimento della felicità.
Infine, anche orgoglio (senso eccessivo del sé) e gelosia (invidia della felicità altrui) si basano su una considerazione non realistica della propria condizione rispetto alla realtà umana nel suo complesso.
L’“io” illusorio
Poiché il concetto dell’esistenza del sé permanente sembra essere alla base di tutte le emozioni ne segue che, per indagare sulle emozioni, bisogna scandagliare in profondità il concetto di “io”.
Che cos’è l’“io” se non un nome dato a un continuum esperienziale, così come si può indicare un fiume e chiamarlo Tevere o Arno? (Vedi p.e. il fr. 91 di Eraclito: «Non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell’impetuosità e della velocità del mutamento essa si disperde e si raccoglie, viene e va.») L’io non potremmo trovarlo né nel corpo, né, tanto meno, nel flusso di coscienza. Tutto è in divenire (anicca).
Tre livelli di coscienza
La credenza di un “io” immutabile (e dunque la fonte delle emozioni negative) è costitutiva della natura fondamentale della mente? Ovvero le emozioni negative sono ineliminabili?
Secondo il Buddhismo i livelli della coscienza sono tre: quello ampio, quello sottile e quello molto sottile.
Ampio: è la normale attività della mente quando è collegata al corpo e al mondo esterno.
Sottile: è la mente quando esamina se stessa, ciò che chiamiamo riflessione o pensiero introspettivo.
Il livello molto sottile è l’aspetto più profondo ed essenziale della coscienza, il fatto stesso che la facoltà cognitiva, anziché essere assente, esista. È la coscienza pura e semplice, non concentrata su alcun oggetto specifico. Di solito non si percepisce la coscienza in questo modo; per svilupparla ci vuole una specifica educazione alla contemplazione (che è lo scopo fondamentale della pratica meditativa del Buddhismo).
A quest’ultimo livello, che corrisponde alla natura originaria della mente (non egoica) le emozioni negative non si manifestano. Dunque, esse non sono connaturate alla mente. La quale si può “purificare”.
I tre livelli di coscienza sussistono contemporaneamente, non si escludono a vicenda. I primi due livelli possono essere paragonati alle onde sulla superficie dell’oceano, mentre la natura fondamentale della mente corrisponde alla profondità dell’oceano.
La libertà dalle emozioni distruttive
Come si è detto, delle emozioni distruttive ci si può liberare soltanto se esse non appartengono alla natura più profonda della mente. La nostra esperienza ordinaria ci dice che queste emozioni negative sono intermittenti, impermanenti. Coloro che si dedicano alla contemplazione ci dicono poi che, quando si avvicinano alla comprensione degli aspetti fondamentali della coscienza, non riscontrano la presenza di emozioni negative nel continuum luminoso che sta al livello molto sottile. Si tratta, infatti, di uno stato libero da ogni emozione distruttiva e dalla negatività. Le emozioni distruttive si manifestano invece in determinate circostanze, per via di certe abitudini e tendenze che si esprimono negli strati esterni della coscienza.
Dunque, esiste una via alla liberazione (Terza Nobile Verità) ed è percorribile seguendo un determinato stile di vita e determinate pratiche (Ottuplice Sentiero – Quarta Nobile Verità). Questo non significa che sia semplice e scontata. Tutt’altro. Ma è potenzialmente alla portata di tutti.
In metafora: la mente originaria è come uno specchio d’oro incrostato di opacità e sporcizia. La via alla liberazione consiste nel riconoscere la vera natura della mente e nel ripulire tali incrostazioni per lasciare che lo specchio risplenda.
Se si riconoscono le emozioni per quello che sono, esse perdono immediatamente la loro forza. Guardare dritto negli occhi la rabbia, per esempio, porta pian piano a riconoscerne la natura effimera. È la mente a dargli forza. Ripulendo la mente essa perde consistenza ed evapora come nebbia al sole.
Peraltro, a ben guardare, le qualità negative delle emozioni non sono neppure intrinseche alle emozioni stesse. È l’atto di aggrapparsi a esse che, combinato alle proprie tendenze, suscita una reazione a catena nel corso della quale il pensiero iniziale si trasforma in rabbia, odio e malevolenza. Svanita l’illusione dell’“io” anche le emozioni negative tendono a dissolversi.
Un antidoto universale
Come si affrontano le emozioni negative? In primo luogo, con il riconoscimento e l’osservazione, ma poi anche in termini di trasformazione interiore. Insinuandosi senza sosta nella mente, le emozioni negative si trasformano in umori e successivamente in tratti caratteriali. Occorre dunque bloccarle sul nascere.
Tre livelli: principiante, intermedio, avanzato.
Principiante: s’impara ad approntare un antidoto per ogni tipo di emozione negativa. P.e., coltivare la compassione rappresenta un antidoto perfetto contro la rabbia. Oppure, osservare attentamente gli aspetti deteriori di un oggetto del desiderio può servire a diminuire l’attaccamento.
Intermedio: il passo successivo consiste nel cercare un antidoto in grado di funzionare per tutte quelle emozioni contemporaneamente. Tale antidoto va trovato nella meditazione, indagando sulla natura ultima di tutte le emozioni negative. Si scoprirà che non possiedono una loro solidità – mostrano invece ciò che il Buddhismo chiama il vuoto.
Avanzato: l’ultima via, la più rischiosa, consiste nel trasformare le emozioni distruttive utilizzandole come catalizzatori per liberarsi velocemente del loro influsso.
Ognuno utilizzerà il metodo che sperimentalmente gli parrà più appropriato alla sua condizione personale.
Prima, durante o dopo?
Quando affrontare (prendersi cura delle) emozioni? Prima che si manifestino, mentre si manifestano o dopo?
Il primo tipo di intervento, tipico del principiante, viene messo in atto dopo che si sono manifestate, poiché di solito si riconoscono gli aspetti negativi o distruttivi di certe emozioni soltanto dopo averne fatta esperienza. Si ricorre allora alla ragione per comprenderne le cause e misurarne le conseguenze. Studiando la natura delle emozioni si può lenirle concentrandosi sull’emozione-antidoto.
Una volta ottenuta una qualche esperienza di questa pratica, la fase successiva consiste nell’affrontare le emozioni quando insorgono. L’elemento cruciale è di liberare le emozioni nel momento stesso in cui insorgono, affinché non scatenino una catena di pensieri che proliferano fino a impossessarsi della mente, tanto che ci si sente costretti ad agire, p.e. facendo del male a qualcuno. Per fare questo si osserva un pensiero appena formato, chiedendosi se abbia una forma, un luogo, un colore e così via, fino a scoprire che la sua natura intrinseca è il vuoto. Si scoprirà che, come i pensieri cui sono associate, le emozioni vanno e vengono, come le nuvole in cielo. Le si sentirà senza attaccarsi ad esse, familiarizzando con ciascuna di loro. Non a caso, la parola tibetana per “meditazione” significa proprio “familiarizzazione”.
Quando si è ormai sufficientemente esperti, ecco il passo finale: prima ancora che un’emozione possa insorgere, si è già talmente pronti ad attenderla che non riuscirà a manifestarsi con la stessa forza di coercizione. Non si tratta né di reprimerla, né di darle libero sfogo. Semplicemente, con la pratica costante si rimuovono progressivamente le condizioni del suo manifestarsi. Quando si è imbevuti di compassione, difficilmente l’odio potrà manifestarsi.
I 6 tipi di meditazione tibetana:
1) visualizzazione (concentrarsi su una figura, un disegno, un’immagine);
2) concentrazione su un unico punto (che rientri nel campo visivo);
3) sulla compassione (verso ogni forma di essere vivente);
4) sulla devozione (gratitudine nei riguardi di un maestro);
5) sul coraggio: richiamare alla mente una certezza priva di paura in cui non si senta avversione per niente e nessuno (“non ho niente da perdere, niente da guadagnare”);
6) “stato aperto” (svuotare la mente, lasciare che i pensieri si manifestano senza dar loro peso intenzionale).
La piena realizzazione
Liberarsi dalle emozioni distruttive non significa diventare apatici, indifferenti verso tutto e tutti. Il saggio non è una persona in fuga dal mondo. Al contrario, egli è nel mondo in maniera più consapevole e più empatica, ha una percezione acuta della sofferenza altrui e della legge di causa ed effetto.
Le emozioni, dunque, non vanno né represse né espresse in maniera violenta. Per usare un termine caro alla psicanalisi esse vanno piuttosto “sublimate”, incanalandole in un dialogo con la propria intelligenza e utilizzandone l’energia per progredire e far progredire nella ricerca spirituale, verso un modello di vita più “ricca” e “felice”.
Felicità e piacere immediato non sono necessariamente la stessa cosa. Nel contesto buddhista la felicità è legata a un senso profondo di realizzazione, accompagnato da una sensazione di pace e da una serie di qualità positive come, p.e., l’altruismo. Il piacere è effimero e transeunte, si volge spesso in sofferenza o indifferenza. La pace è condizione stabile.
Bontà originale, e non peccato originale
Poiché il potenziale per realizzare la condizione del Buddha è presente in ogni essere senziente, l’approccio buddhista risulta più vicino all’idea di bontà originale che a quella di peccato originale. Sotto questo profilo il punto di vista del Buddhismo è opposto a quello occidentale. Nessun peccato da espiare, nessun Paradiso da guadagnare, nessun millenarismo o messianesimo.
Tale natura-Buddha va “ripristinata”, “riscoperta”, “secondo natura”, come direbbe Epicuro. È il “livello-zero” del nostro essere. Quando si vedono le cose come sono, diventa più facile liberarsi delle emozioni negative e svilupparne di positive, fondate su ragionamenti corretti; tra queste vi è una compassione (metta) molto più spontanea e naturale.
Naturalmente non si tratta di un cammino facile ed immediato. Occorre tempo, applicazione, disciplina. Nulla di dogmatico. Il cammino è sempre basato sull’esperienza personale. Il Buddha ebbe a dire: “Io vi ho mostrato il cammino. Tocca a voi percorrerlo”.
Per approfondire:
- Alan W. Watts, Il significato della felicità, Ubaldini Editore, Roma 2019
- Corrado Pensa, La tranquilla passione. Saggi sulla meditazione buddista di consapevolezza, Ubaldini Editore, Roma 1994
- Aldo Franzoni, Trasformare le emozioni in saggezza. Secondo il buddismo tibetano, Magnanelli, Torino 1998
a cura di Francesco Dipalo
https://francescodipalo.wordpress.com/

Salvatore Fricano, amministratore del sito delle vacanze filosofiche. Docente di Filosofia e Scienze Umane in un liceo. Esperienza, ormai datata, come analista programmatore e capo progetto in una società d'informatica.