martedì 28 Novembre 2023
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“Un’etica per la civiltà tecnologica”: il rapporto tra uomo e natura in Hans Jonas

Trascrizione dell’audio-lezione di Francesco Dipalo

Buongiorno. Ci tengo, per prima cosa, a ringraziare tutti quanti per la fiducia accordatami. Vi chiedo scusa in anticipo per eventuali “zone grigie” od omissioni nella mia esposizione. Non è facile provare a realizzare lezioni che siano concettualmente ricche ed approfondite, ma riescano, nel contempo, di chiara e facile comprensione. Non è arte semplice e scontata quella di saper gestire la complessità filosofica e mediarla affinché risulti “digeribile” da un uditorio generalmente composto da studenti liceali. Checché se ne dica – di scempiaggini pseudo-didattiche è satura la rete – è la base nostro lavoro, lavoro che cerchiamo di svolgere in maniera professionale ed onorevole.

Per affrontare il tema di oggi “Un’etica per la civiltà tecnologica”: il rapporto tra uomo e natura in Hans Jonas ricorrerò, come è mio costume, all’analisi e al commento di alcuni brevi passaggi tratti dalle opere del nostro filosofo e, in particolare, da Il principio responsabilità, il suo libro più famoso. Spesso le nostre voci si sovrappongono eccessivamente a quelle dei filosofi che trattiamo, trascurandone la lettera del pensiero e generando confusione. Le riduzioni manualistiche, peraltro, pur svolgendo un compito apprezzabile e necessario creano, inevitabilmente, semplificazioni eccessive e “scorciatoie concettuali” che depotenziano la complessità e la profondità del lavoro filosofico. Nei licei bisognerebbe tornare, per alcuni versi, alla pratica fondamentale dei maestri medievali, la lectio, da cui deriva il termine “lezione”, ovvero la lettura dei testi filosofici che il professore si limita a “glossare” e spiegare. Con il vocabolo “glossare”, dal greco glossa “lingua”, s’intende un’operazione che, peraltro, il bravo studente conosce e mette in pratica frequentemente: ovvero, la scrittura al margine del testo di brevi note esplicative e riassuntive dello stesso (magari a matita e con tratto delicato, come si faceva una volta, per non rovinare il libro).

La selezione dei passi da leggere e commentare, quella che, per capirci, chiamiamo “antologia”, non è operazione di poco conto. Richiede una buona dose di sapienza didattica, nonché l’aver letto attentamente l’intera opera del filosofo. Per questo ci siamo affidati ad una breve antologia a cura del prof. Emidio Spinelli, ordinario di storia della filosofia antica presso l’Università di Roma “La Sapienza”, nonché profondo conoscitore dell’opera di Jonas. Tra i suoi libri ricordiamo l’ultimo del 2019 intitolato Obiettivo Platone: a lezione da Hans Jonas, pubblicato dalla casa editrice ETS.

Veniamo ai passi in questione. Il primo è tratto da HANS JONAS, Dalla fede antica all’uomo tecnologico. Saggi filosofici

Leggo:

«[…] così è accaduto che, verso la fine degli anni ’60 – passando da una giustificazione “teorica” ad una “pratica”, sotto la pressione degli eventi e ancor più delle grandiose possibilità che si profilavano all’orizzonte – ho cominciato ad occuparmi di etica e, alla fine, a ricercare i fondamenti di un’etica adeguata alle questioni su cui prima o poi saremo chiamati a decidere

La fine degli anni Sessanta del XX secolo rappresentano un punto di svolta tanto nella storia dell’umanità – si pensi al “Sessantotto” rivoluzionario – quanto in quella personale di Hans Jonas. Fino a quel momento Jonas, che aveva insegnato presso alcune università canadesi prima e statunitensi poi, si era occupato principalmente di “filosofia della natura” lavorando, gomito a gomito, con scienziati di varie specialità (biologia, fisica, ecc.). Cosa aveva fatto esattamente il nostro filosofo? Come forse qualcuno di voi sa, nei paesi di tradizione anglosassone, la filosofia era, ed è tuttora, intesa principalmente come filosofia della scienza e filosofia del linguaggio. Ovvero, il filosofo partecipa ad un determinato progetto di ricerca in “team” con altri ricercatori di varia estrazione scientifica, a seconda dell’obiettivo della ricerca, (il “target” per usare un altro americanismo). Il suo compito peculiare, stando ai dettami del “neopositivismo logico”, consiste, grosso modo, nel supervisionare le attività del gruppo di ricerca garantendo la tenuta “epistemologica” e “logico-linguistica” del lavoro. Per capirci: l’epistemologia (dal greco “discorso”, logos, intorno alla “scienza”, episteme) si occupa di indagare e definire i limiti teoretici, metodologici e procedurali delle scienze, cioè, per dirla in maniera semplice, serve a distinguere i discorsi che hanno valenza scientifica da quelli che non ne hanno alcuna (sia per motivi di forma che di contenuto). Facciamo un esempio: la scienza contemporanea si basa, tra le altre cose, sul cosiddetto “principio di falsificabilità” formulato da Karl Popper, un altro illustre filosofo novecentesco di origini ebraiche, coetaneo di Hans Jonas. Secondo tale principio, una teoria che non può essere falsificata, cioè che si basa su assunti non verificabili e quindi non controvertibili per via sperimentale, non può essere considerata scientificamente valida. Per capirci, se io affermo in maniera categorica (utilizzando, per di più, il modo verbale dell’indicativo) che l’origine e la diffusione di covid-19 dipende dalle oscure trame di questo o di quell’agente politico o, ancora, dall’Anticristo in persona, senza offrire prove confutabili di questa mia affermazione, ebbene, il valore epistemologico, scientifico di tale affermazione è zero. Beninteso, ognuno è libero di credere quel che vuole. Basta chiamare le cose con il loro nome. La religione è religione, il mito è mito, le favole sono favole, la scienza è scienza. Tutto qui.

Ecco, questa supervisione “critica” oltre all’analisi logico-linguistica delle affermazioni prodotte dal gruppo di ricerca e alla costruzione di una visione complessiva che unisca i diversi saperi settoriali in una teoria coerente, è compito del filosofo della scienza. Di questo Jonas si era prevalentemente occupato negli anni del Secondo Dopoguerra.

Cosa significa “svolta pratica” e quali sono gli “eventi pressanti” e le “possibilità grandiose” cui Jonas si riferisce? Dalla “teoria” alla “pratica”. Attenzione: l’uso che spesso si fa nel linguaggio colloquiale di questi termini è fuorviante. Con “teoria” non si intende una cosa campata in aria, bensì lo studio attento ed argomentato di uno o più fenomeni naturali (o umani). Chi “fa teoria”, insomma, indaga e cerca di spiegare come funzioni un determinato fenomeno, quali siano le sue cause, quali effetti produca, ecc. Si tratta di un approccio, per così dire, “descrittivo” al mondo. Con “pratica”, invece, si intende ciò che riguarda la “prassi”, cioè il “fare” o l’“agire” umano (dal verbo greco prasso, “faccio”). Dare una “giustificazione pratica” di un determinato fenomeno significa dunque porsi la seguente domanda: ammesso che le cose stiano in un certo modo, che ho stabilito per via teoretica, come debbo comportarmi in relazione ad esse? Cos’è bene e cos’è male? Cos’è giusto e cos’è sbagliato? E ancora: a quali fini, a quali valori, è opportuno rifarsi per definire cosa sia buono e cosa sia malvagio o controproducente? E ancora: in relazione a chi? A me stesso? Alla comunità di cui faccio parte? All’umanità in generale? O, meglio ancora, all’intera biosfera, alla natura nel suo complesso? Eccetera, eccetera. Ecco, per questo motivo, Jonas dichiara che da quel momento in poi si sarebbe occupato principalmente di “etica”. L’“etica”, dal greco ethos, “costume”, “abitudine”, è la branca della filosofia che studia le questioni pratiche di cui dicevamo prima (ho detto “studia”: quindi l’approccio rimane “teoretico”… spetta poi a ciascuno di noi tradurre in azioni concrete i principi e le convinzioni morali). Spero sia tutto chiaro.

“Eventi pressanti” e “possibilità grandiose”. Dal Secondo Dopoguerra in poi, come sappiamo, lo sviluppo della tecnica e delle diverse tecnologie fanno passi da gigante, determinando un’epoca unica nella storia dell’umanità. Per capirci, dal primo volo sperimentale dei fratelli Wright del 17 dicembre 1903 al viaggio sulla luna del 20 luglio 1969 non passano nemmeno settant’anni. Mia nonna materna, nata a Trapani nell’anno 1900, quando ancora, salvo alcune eccezioni, ci si spostava a piedi o a cavallo, da adulta ha potuto viaggiare in auto e in aereo ed assistere in TV all’allunaggio di Armstrong e Aldrin. Ha visto casa sua demolita dalle bombe americane nel 1943 e ha tremato nel periodo della Guerra Fredda dinanzi allo spettro della distruzione termonucleare globale. Ecco, stiamo parlando di questa roba qui. Scusate se è poco.

Un progresso scientifico e tecnologico, quello degli anni Cinquanta-Sessanta, incalzante, strabiliante, che non si accompagna ad un altrettanto significativo progresso in senso spirituale, morale e politico. In linea, peraltro, con i decenni successivi. Ebbene, cambiando completamente le carte sul tavolo, ovvero rideterminando le potenzialità dell’agire umano in base alle nuove tecnologie disponibili – ora, per capirci, abbiamo il “potere”, e sottolineo il termine “potere”, di distruggere l’intero pianeta – tale progresso induce Jonas “a ricercare i fondamenti di un’etica adeguata alle questioni su cui prima o poi saremo chiamati a decidere”. Tale ricerca, come ben sapete, è di grandissima e “tragica” attualità. Per capirci: il futuro “saremo” è diventato negli ultimi decenni un presente sempre più urgente e categorico: siamo oggi, qui ed ora, chiamati a decidere. Perché domani sarà troppo tardi. O, peggio, è già, per alcuni versi, troppo tardi. Espressioni quali “cambiamento climatico”, “riscaldamento globale”, “buco nell’ozono”, “sesta grande estinzione”, “pandemia”, “collasso ecologico”, ecc. vi dicono qualcosa? Avete capito qual è la posta in gioco?

Veniamo al secondo passo tratto da Scienza come esperienza personale. Autobiografia intellettuale

Leggo:

«[…] motivo conduttore dell’interpretazione è stato per me il concetto della libertà che ho creduto di scoprire embrionalmente già nel ricambio organico e ho visto esaltarsi nell’evoluzione animale in gradi fisici e psichici sempre più elevati fino a giungere al vertice, nell’uomo. Qui il rischio della libertà, nel quale la natura si è avventurata con la vita e la sua caducità, diventa una questione di responsabilità dei soggetti stessi. Si apre così la dimensione della moralità che in quanto dottrina del dovere oltrepassa la dottrina dell’essere, ma si fonda pur sempre su questa.»

Confrontiamoci subito con la prima parola-chiave che incontriamo nel testo: libertà. Il termine “libertà”, come sapete, si declina in tante maniere diverse, a seconda che lo si voglia intendere in senso giuridico (per esempio “libertà di parola” o “libertà di circolazione”), politico (“libertà di voto”), economico (“libertà d’impresa”), ecc. A noi qui interessa il suo significato etico. “Libertà”, nel testo di Jonas, è sinonimo di “autonomia decisionale”: sono libero di scegliere il mio comportamento in base alle norme, ai parametri che io stesso stabilisco per conto mio (“autonomo” viene dal greco autos “io stesso”, nomos “legge”, “regola”). Di fatto, senza “libertà” non si dà etica, così come senza il punto e la linea non si dà alcuna geometria. Il concetto di libertà è il primo assioma della scienza etica. Ovvero, non ha senso parlare di bene e di male, di virtù o di responsabilità se non parto dal presupposto che il soggetto agente sia libero, entro certi limiti, di stabilire la propria condotta. Fino a qui ci siamo.

Nei suoi studi naturalistici Jonas ha “creduto” di scorgere l’origine remota del concetto di “libertà” – di cui l’agire umano rappresenta, ovviamente, il vertice – sin dal sorgere delle prime forme di vita organiche, su su lungo la scala dell’evoluzione animale. Man mano che ci si allontana dal regno della materia inorganica, dominata, per intenderci, dalle leggi meccanicistiche e necessitanti della fisica – una pietra non può “decidere” di non rotolare a valle se viene messa in moto dalla forza di una valanga – ebbene, il concetto di necessità si volge nel suo opposto, all’inizio impercettibilmente, poi in maniera sempre più evidente. Con la comparsa dell’uomo il “rischio della libertà, nel quale la natura si è avventurata” raggiunge il suo culmine. Ma perché la libertà dovrebbe essere un rischio? In che senso rappresenta un’avventura? Perché chi decide liberamente la propria condotta, abbandona, di fatto, il cammino “eterodiretto”, cioè stabilito da un principio altro da sé (eteros), della “legge divina”, secondo una chiave di lettura religiosa, o della “legge di natura”, in chiave moderna. Sarebbe a dire che, se il nostro agire è pilotato dall’esterno da Dio, buono ed onnipotente per definizione, oppure è determinato a priori dall’istinto ovvero dalla chimica del nostro cervello, in tal caso non saremmo liberi e non correremmo nemmeno il rischio di sbagliare, di fare male. Né soffriremmo i patimenti del dubbio, l’angoscia del dover scegliere a tutti i costi o il doverci confrontare con il “tribunale interiore della coscienza”, per dirla con Kant – sempre, beninteso, che una coscienza la si abbia da qualche parte…

E allora veniamo alle altre due parole-chiave: “responsabilità” e “moralità”. “Responsabilità”, in tedesco Verantwortung, è termine di per sé “pesante”, “oneroso”. Chi è responsabile di qualche cosa o di qualcuno deve dar conto della faccenda o della persona che gli è stata affidata, ne “risponde” in prima persona. “Rispondere” significa “ergersi contro”, “far fronte a”, “prender partito”: ecco perché è oneroso, pesante da portare. Qualcuno, investito di una certa autorità morale o giuridica, prima o poi te ne chiederà conto, nella vita di tutti i giorni, in tribunale, in famiglia. Libertà chiama responsabilità. La responsabilità la si assume liberamente. Solo ad un uomo libero può esser chiesto conto delle sue azioni. Chi non è libero – perché, per esempio, agisce obbedendo agli ordini di un’autorità superiore o perché non è in grado di intendere e volere – non può esser chiamato a rispondere del proprio agire. Senza libertà e responsabilità, ecco la terza parola-chiave, non ha senso parlare di “moralità”: i principi e i valori su cui si fonda un agire “morale” sarebbero destituiti di qualsivoglia fondamento senza libertà e responsabilità. In parole più semplici: se non sono libero di determinare la mia condotta e di assumermene la responsabilità, facendo fronte alle conseguenze che la mia scelta determina, non posso esser considerato un “soggetto morale”.

In che senso la “dottrina del dovere” oltrepassa quella “dell’essere”? Il dovere, la moralità di per sé, sopravanzano la sfera della pura e semplice realtà naturale, fondata sul presente stato di cose. Agire in base ad un imperativo morale categorico, come insegna Kant, comporta un uso diverso della Ragione, che non è più chiamata a determinare cosa sia fenomenicamente vero o falso, scientificamente fondato o meno, ma distingue ciò che è bene da ciò che è male ed impone al soggetto umano di agire di conseguenza, anche a prescindere dal risultato della stessa azione. Facciamo qualche esempio. Studiare virologia, magari facendo esperimenti in prima persona in un laboratorio, mi permette di capire che cos’è un virus e qual è il suo comportamento in natura: come si evolve, come si adatta e si riproduce nella specie animale “serbatoio”, come infetta l’animale “portatore” (il termine scientifico è “zoonosi”, ma possiamo usare anche l’americanismo spillover, “salto di specie”), come si trasmette, infine, all’uomo e come muta producendo diverse varianti. Nessun trattato di virologia, però, mi aiuterà a decidere fino a che punto sia corretto utilizzare queste conoscenze per manipolare e modificare in laboratorio un virus creando una potenziale arma biologica. La questione, evidentemente, esula dall’ambito della virologia e rientra in quello dell’etica e della politica. Diventa quindi una questione di filosofia etica o politica. Mi sono spiegato?

Di fatto, però, sostiene Jonas, la dottrina del dovere si fonda pur sempre sulla dottrina dell’essere, cioè non può non tener conto della realtà in sé. Per esempio, l’imperativo deontologico ippocrateo, che dovrebbe ispirare l’agire professionale del medico, la difesa a tutti i costi della vita e del benessere del paziente, si dà nella misura in cui esiste il fenomeno che chiamiamo vita congiuntamente alle nozioni empiriche di salute e malattia. È dalla presenza fisica della persona sofferente, dal suo volto corrucciato che si leva la richiesta di aiuto: in questo senso la questione etica si fonda su quella ontologica, cioè sull’essere in sé della persona, sul suo essere in vita e voler smettere di soffrire.

Andiamo avanti. I passi che leggerò da qui in poi sono tratti da Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica

Questo l’incipit del libro di Jonas:

«Il Prometeo irresistibilmente scatenato, al quale la scienza conferisce forze senza precedenti e l’economia imprime un impulso incessante, esige un’etica che mediante auto-restrizioni impedisca alla sua potenza di diventare una sventura per l’uomo. La consapevolezza che le promesse della tecnica moderna si sono trasformate in minaccia, o che questa si è indissolubilmente congiunta a quelle, costituisce la tesi da cui prende le mosse questo volume.»

Il “Prometeo scatenato” è figura mitica altamente evocativa. Nella mitologia greca Prometeo è un titano, una divinità che appartiene alla generazione precedente gli dèi olimpici. La sua caratteristica principale è scritta nel suo “nome parlante”: Prometeo è colui che esercita in anticipo, questo il significato del prefisso pro, la metis ovvero l’intelligenza in senso pratico, l’astuzia, la furbizia, il sapersela cavare in ogni circostanza. Dunque, Prometeo pre-vede, vede in anticipo. Nella storia delle religioni è classificato come un “demiurgo trickster”, una divinità che con i suoi imbrogli, le sue astuzie, contribuisce a mettere in moto il mondo. Secondo il celeberrimo mito, il titano ruba una scintilla di fuoco dal focolare degli dèi olimpici, portandola in regalo all’umanità. Badate bene: dietro il dono del fuoco all’umanità c’è il desiderio prometeico di vendicarsi della nuova e vincente generazione degli olimpici, sfidando il nuovo ordine “costituito” da Zeus. Insomma, Prometeo è, innanzitutto, il prototipo del ribelle, una specie di Spartaco del mondo celeste. Per questo suo gesto di ribellione, non per niente, verrà “consegnato alla giustizia”, incatenato alla rupe del Caucaso e condannato ad un supplizio atroce: il suo fegato verrà divorato, brano a brano, da un’aquila. L’atrocità del supplizio è accentuata dal fatto che Prometeo, essendo un dio, non può morire. Il fegato continuerà a ricrescergli nei secoli dei secoli. Ma ormai il danno è fatto. L’uomo si è impossessato del fuoco ed inizia ad utilizzarlo. Zeus non può farci niente. E il fuoco rappresenta la techne, l’arte, la tecnica. Senza il dominio sul fuoco non si sarebbero sviluppate la metallurgia, l’arte della ceramica, la cantieristica navale, eccetera eccetera.

Si tratta, però, di un danno relativo. La tecnica è potente, i Greci ne sono ben consapevoli. Attraverso di essa l’uomo, insuperbendo, potrebbe pensare di mettere in discussione l’autorità degli olimpici, rinnovando il gesto di sfida del titano Prometeo. Badate bene: è una questione di potenza, è sempre una questione di potenza, come ci ricorda lo stesso Jonas. Ma la tecnica nel mondo antico, per quanto possa risultare determinante all’interno della polis, cioè nelle faccende politiche, nulla può rispetto alle leggi di natura. Non importa con quanta perizia ed intelligenza ingegneristica sia stata fabbricata una nave: dinanzi alla tempesta scatenata da Poseidone, essa si infrange (da cui il termine “naufragio”). Come ben ci ricorda la vicenda dell’eroe omerico più celebre, colui che è umanamente dotato in sommo grado di metis, come Prometeo: l’astuto Odisseo. Insomma, per farla breve, come Prometeo, la tecnica e il potere che ne deriva, per gli antichi, è “incatenata”, vale a dire limitata, rinchiusa all’interno dell’ordine naturale, sottoposta al potere divino e ad ananche, la necessità che tutto domina.

Avete capito, allora, quanto è evocativa l’immagine del Prometeo irresistibilmente “scatenato”? Un Prometeo senza più catene ha il potere di sovvertire lo stesso ordine naturale, di trasferire al regno della natura le logiche della polis, di invadere gli spazi extraurbani ri-modellandoli a suo piacimento. Ed è esattamente quello che l’umanità ha messo in opera, in maniera sempre più marcata, nell’età moderna e contemporanea. Per indicare questo cambiamento epocale, oggi è entrato nell’uso comune un termine “sdoganato” nel 2000 dal premio Nobel per la chimica Paul Crutzen: “antropocene”. Con “antropocene” si intende la nuova era geologica caratterizzata dalla “terra-formazione” umana, in cui l’impronta prodotta sulla Terra dalla presenza della specie homo sapiens è tale da sconvolgere e ridisegnare gli stessi equilibri geologici del pianeta, per non parlare dei cambiamenti in atto nella cosiddetta biosfera (cioè la sfera degli organismi viventi). Per definire i confini temporali di “antropocene” sono state avanzate diverse ipotesi. Per qualcuno l’inizio dell’“antropocene” andrebbe fatto coincidere con la prima rivoluzione industriale, tra Settecento ed Ottocento. Altri interpreti propongono come evento-spartiacque la bomba atomica su Hiroshima alla fine del Secondo conflitto mondiale. Ad ogni modo è fuor di dubbio che l’accelerazione dell’economia mondiale negli anni Cinquanta e Sessanta, con l’utilizzo sempre più massiccio dei combustibili di origine fossile, fino ad arrivare all’attuale globalizzazione, rappresentino inequivocabilmente una svolta epocale nella storia dell’umanità e del pianeta Terra.

Chiara, perché oggi sotto gli occhi di tutti, un po’ meno evidente, forse nel 1979, anno di pubblicazione de Il principio responsabilità, chiara, dicevo, è la connessione stabilita da Jonas tra i tre termini “scienza”, “economia” e “tecnica”. La modernità, almeno a partire dal celebre nosse est posse di Francesco Bacone, si incentra intorno al binomio “scienza-tecnica” e all’idea di “progresso” che su tale binomio si fonda. Nosse est posse significa, alla lettera, “conoscere è potere”, ovvero dalla conoscenza, organizzata secondo il metodo scientifico, deriva il potere. Il potere di fare che cosa? Il potere di intervenire sui processi naturali per piegarli alle proprie necessità, per domarli, sottometterli: “alla natura” dice Bacone “si comanda obbedendole”. In tale prospettiva, la tecnica rappresenta, se mi passate l’espressione, “il braccio armato della scienza”, la “reificazione”, la concretizzazione del potere. La macchina, in cui si incarna il sapere tecnico-scientifico, mi dà potere sulla realtà naturale, la piega a mio uso e consumo. Modifica finanche i concetti di spazio e di tempo, apre di continuo prospettive inimmaginabili, stravolge dalle fondamenta stili di vita ed abitudini secolari. A scatenare la tecnica prometeica, figlia del progresso scientifico, e a darle “un impulso incessante” è però l’economia. Se la prima modernità ruota intorno al concetto di “politica” laicamente intesa, la cosiddetta “Ragion di Stato”, il mondo contemporaneo si struttura secondo le leggi dell’economia, parla il linguaggio dell’economia. L’economia è la metafisica del tempo presente. Come ama dire Umberto Galimberti, se ad un medievale tolgo dal vocabolario la parola “Dio” lo rendo praticamente afasico. Se oggi tolgo dal vocabolario dell’uomo della strada la parola “Dio”, ebbene, al nostro amico non cambia un bel niente. Provate a togliergli termini come “mercato”, “crediti”, “debiti”, “carta di credito”, “denaro”… Quando il listino Nasdaq o Mibtel fanno sentire la loro voce, dandoci le quotazioni della giornata, gran parte dell’umanità trattiene il fiato. Anche in questo caso non aggiungo altri esempi: mi sembrano argomenti assolutamente lapalissiani. Naturalmente, quando parliamo di “economia” non intendiamo una forma di economia qualunque, ma, soprattutto a partire dai primi anni Novanta, a seguito del crollo dell’Unione Sovietica e dell’alternativa socialista, ci riferiamo al modello di economia capitalistica in salsa neoliberista e finanziaria esteso su scala planetaria.

Ma perché abbiamo bisogno di una nuova prospettiva etica? Perché, come degli apprendisti stregoni che maneggiano forze in parte sconosciute e dagli effetti imprevedibili, corriamo il rischio, noi come umanità intendo, di cadere vittime degli stessi demoni tecnologici da noi evocati. Dovremmo liberarci dal totem del “progresso” a tutti i costi, sia in senso economico che in senso tecnologico. Oggi più che mai. Di questo parleremo più in là. Il compito che si dà qui Jonas è quello di fondare una nuova “etica per la civiltà tecnologica” che tenga conto del fatto che l’immenso potere fornitoci dalla tecnica ci impone di rivisitare i criteri etici tradizionali. La promessa del progresso a crescita indefinita si è trasformata in minaccia, la salvezza in sventura. Il nucleare può fornire ad una parte dell’umanità energia a basso costo, per un certo periodo di tempo. Ma a quali costi per l’ambiente, a quali costi per la nostra salute? E, soprattutto, convivendo con quali rischi concreti? È solo un esempio, banalissimo, ma storicamente significativo. La notte del 26 aprile 1986 uno dei reattori della centrale nucleare di Černobyl’ in Ucraina esplose causando una reazione a catena e diffondendo nell’atmosfera materiale radioattivo. Proprio negli anni Ottanta, nel frattempo, il libro di Jonas diventava una specie di “Bibbia” per i movimenti ambientalisti, da Greenpeace ai “Partiti Verdi” nei Parlamenti europei. Il progresso tecnologico è come una macchina lanciata a folle velocità su una strada sconosciuta. Qualche curva riusciamo a prevederla, qualcun’altra no. Ma, incuranti, continuiamo ad accelerare. Ecco, Jonas ci ammonisce che occorre lavorare anche di freno. Soprattutto di freno. Il termine chiave in questo caso è “auto-restrizioni”, quelle necessarie a che la potenza della tecnica non si trasformi in sventura per l’umanità.

Ora, forse, la mappa dei “termini-chiave” del pensiero di Jonas dovrebbe iniziare a comporsi nella vostra mente. Possiamo provare a procedere in maniera un po’ più spedita.

Leggo il passo successivo:

«Più precisamente, intendo affermare che in seguito a determinati sviluppi del nostro potere si è trasformata la natura dell’agire umano, e poiché l’etica ha a che fare con l’agire, ne deduco che il mutamento nella natura dell’agire umano esige anche un mutamento nell’etica. […] Di conseguenza il mio primo obiettivo è domandare in quale modo questa tecnica influisca sulla natura del nostro agire modificandola, in quale misura essa renda, sotto il suo dominio, l’agire diverso da ciò che è stato nel corso di tutti i tempi. Poiché l’uomo, attraverso tutte queste epoche, non è mai stato privo di tecnica, il mio interrogativo verte sulla differenza umana della tecnica moderna da ogni tecnica precedente

Se per secoli il potere di intervento sulla natura e sull’ambiente offerto dalla tecnica, sia in senso macroscopico che microscopico, è stato, tutto sommato, relativo e stabile – pensate alle generazioni e generazioni di contadini, nonni, bisnonni, trisavoli, vissuti tutti quanti, più o meno, allo stesso modo, con la zappa di legno e ferro in mano a rompersi la schiena nei campi – ebbene, il progresso tecnologico degli ultimi decenni ha profondamente mutato la natura dell’agire umano, chi potrebbe negarlo?, al punto che le vostre condizioni di vita, nel quotidiano intendo, assomigliano poco o nulla a quelle dei vostri nonni e poco anche a quelle dei vostri genitori. Come vivranno i vostri figli e i vostri nipoti – sempre che il nostro pianeta continui ad essere una “casa” abitabile per la specie umana e per la biosfera attualmente esistente, seppure in rapido declino – è tema affrontato dalla letteratura fantascientifica e, più di recente, dalla sociologia.

Un breve inciso: nell’etimo di “ecologia”, la scienza nata tra gli anni Sessanta e Settanta come “studio scientifico delle relazioni tra gli organismi e l’ambiente”, c’è proprio il termine greco oikos, “casa”. Quando parliamo di natura ed ambiente parliamo di “casa nostra”, una casa che condividiamo con milioni di altre specie. D’altro canto, con il termine “biosfera” si designa la sfera del pianeta che ospita organismi viventi, dagli abissi oceanici, ai ghiacci dell’Antartide, alle foreste equatoriali.

L’accelerazione del tempo lavorativo e sociale – uno degli effetti più eclatanti del pan-consumismo odierno – è sotto gli occhi di tutti. Insomma, la tecnica fa la differenza. Eccome. La faceva nella seconda metà del Ventesimo secolo, figuriamoci oggi. Muta alle radici il nostro comportamento individuale e sociale, crea nuovi equilibri intrapersonali e forme relazionali, trasforma il linguaggio e le regole della comunicazione interpersonale, forgia stilemi inediti. Il tutto all’insegna di quella “liquidità” che caratterizza la contemporaneità, come ha ampiamente dimostrato il sociologo polacco Zygmunt Bauman (“Società liquida”, “Amore liquido”, ecc.). Ecco perché abbiamo bisogno di una nuova etica che tenga conto dei profondi cambiamenti apportati dalla tecnica alla vita umana (e non solo). Un’etica in continuo dialogo con le scienze, che ci fornisca valori e criteri, fini, in vista dei quali utilizzare i mezzi strabilianti e terribili allo stesso tempo che la tecnica ci fornisce. Avete capito perché il discorso di Jonas è di grandissima attualità?

La prima questione che si pone Jonas, vedi il secondo capoverso del testo, è individuare in che cosa consista la differenza specifica tra la nostra epoca e quelle precedenti, dal momento che la tecnica ha sempre accompagnato l’umanità sin dall’inizio della sua storia – anzi, potremmo dire, per inciso, che il sapere tecnico, il “sapere della mano”, è uno dei tratti peculiari, distintivi del genere Homo. Una risposta l’abbiamo già abbozzata: le tecniche diffuse nel mondo antico e moderno, almeno fino alla rivoluzione industriale, avevano un impatto ininfluente o limitato sull’ecosistema complessivo. Alla fine degli anni Settanta, quando esce Il principio responsabilità si calcola che le due superpotenze possedessero tali e tante testate nucleari da poter annientare il pianeta più volte.

Andiamo avanti. Leggo:

«L’invulnerabilità del tutto, le cui profondità non vengono turbate dall’invadenza umana, vale a dire la sostanziale immutabilità della natura in quanto ordine cosmico, costituiva in effetti lo sfondo di tutte le imprese dell’uomo mortale, inclusi i suoi interventi in quell’ordine stesso. La sua vita si svolgeva fra il permanente e il mutevole: il permanente era la natura, il mutevole erano le sue opere. La più grande di esse fu la città […].»

Ecco la peculiarità della concezione antica della natura. Ne abbiamo già parlato a proposito del mito di Prometeo. La tecnica è “incatenata”, non consente agli uomini di sfidare Zeus. Lo stesso Zeus, peraltro, è sottoposto alla legge invincibile di ananche, il fato, la necessità. Esiste un ordine “cosmico” immutabile che si riproduce ciclicamente identico a se stesso – vedi, per esempio, la celebre dottrina stoica dell’eterno ritorno dell’uguale. Il cielo è appunto kosmos, ordine, armonia, bellezza imperitura ed intangibile, di cui si possono contemplare e studiare le leggi fondamentali, come fanno i Pitagorici e gli accademici platonici. La natura, appunto, la si contempla come ordine divino: questo è il significato originario del vocabolo theoria, “osservare, scrutare – orao – le cose degli dèi – ta theou”, da cui “teorema”, “teatro”, ecc.

All’interno del permanente macrocosmo natura, trova spazio, uno spazio relativo e mutevole, il microcosmo umano, la città, polis,dove le technai, le arti, ritagliano alla comunità umana uno spazio di azione soggetto a leggi, nomoi, particolari. È nello spazio della polis che nasce e si sviluppa l’etica antica. Oggi potremmo definirlo una specie di “ecosistema di nicchia”, che non è comunque in grado di influenzare in maniera significativa l’ecosistema più esteso e tanto meno la biosfera nel suo complesso.

Leggo:

«Tutto ciò è decisamente mutato. La tecnica moderna ha introdotto azioni, oggetti e conseguenze di dimensioni così nuove che l’ambito dell’etica tradizionale non è più in grado di abbracciarli. Il Coro dell’Antigone sulla “enormità”, sulla stupefacente potenza dell’uomo, oggi, nel segno di un’enormità di tutt’altro tipo, dovrebbe acquistare un altro significato, e l’ammonimento rivolto al singolo di onorare le leggi non sarebbe più sufficiente. Anche gli dèi, il cui invocato diritto poteva arginare il corso rovinoso dell’azione umana, sono da tempo scomparsi. Certo, le antiche norme dell’etica del “prossimo” – le norme di giustizia, misericordia, onestà ecc. – continuano ad essere valide, nella loro intrinseca immediatezza, per la sfera più prossima, quotidiana, dell’interazione umana. Ma questa sfera è oscurata dal crescere di quella dell’agire collettivo, nella quale l’attore, l’azione e l’effetto non sono più gli stessi: ed essa, a causa dell’enormità delle sue forze, impone all’etica una nuova dimensione della responsabilità, mai prima immaginata.»

Ecco il coro dell’Antigone di Sofocle cui Jonas fa riferimento:

«Molte le cose

tremende, ma di tutte

più tremenda è l’uomo.

Oltre il livido

mare avanza,

nell’australe vento

burrascoso, passando

tra profondi muri

d’acqua mugghianti intorno.

Suprema

tra gli dei, la Terra,

instancabile immortale, logora

con aratri che di anno

in anno la rivoltano, avanti

e indietro, con l’apporto

della razza equina.

Le specie degli uccelli

volubili cattura, e le stirpi

delle bestie selvatiche e

le forme viventi nel mare

salato, tra maglie

avvolgendole, fraudolento,

l’uomo. Doma

con trucchi le bestie che hanno

tane agresti e vagano

per le montagne, e il collo

del cavallo di folta

criniera e l’infaticabile

toro montano aggioga.

A se stesso insegnò

la parola e il pensiero

simile al vento, e le civili

consuetudini, e come

i morsi all’aperto

del gelo terribile

per chi non ha riparo

e le piogge sferzanti

scompare, in tutto

ingegnoso. Mai

in difetto d’ingegno

a ogni destino fa fronte. Ade

solo non scampa, ma con sforzo

comune apprestò vie

di scampo a mali

irrimediabili.

Capisce, inventa, ha

sulle arti dominio

oltre l’attesa, e ora

al bene, ora

al male, serpeggiando

volge. Se

del paese le leggi

applica e la giustizia

degli dèi, sancita

da giuramento, in alto

sarà nella patria. Sprezzante

il senza patria a chiunque

capiti – brutta

faccenda – s’aggrega.

Al mio focolare costui

non s’avvicini, comuni

con me pensieri non abbia

chi queste cose compie.»

Quello che agli occhi di Sofocle e dell’uomo antico appare “tremendo”, le tecniche nautiche, l’agricoltura, ecc. a noi oggi fa quasi sorridere. L’ammonimento del coro, come dice Jonas, nella sostanza è sempre valido, ma il suo confine deve essere spostato molto al di là. Ho già fatto alcuni esempi che riguardano la sfera globale, macrocosmica. Facciamone uno che riguarda in maniera altrettanto globale la sfera microcosmica: l’ingegneria genetica. Avete presente l’iconico mostro di Frankestein di Mary Shelley? Ebbene, Frankestein è vivo e vegeto e lotta con noi! È nella gran parte degli alimenti frutto di manipolazione genetica che mettiamo a tavola ogni giorno, dal mais alla soia transgenica. È negli animali di allevamento tirati su a forza di complessi proteici ed antibiotici. È nelle microplastiche che inquinano gli organismi viventi a livello cellulare. Eccetera. Di esempi ne potremmo fare ancora tanti.

Nel frattempo, gli antichi dèi sono morti. E anche il Dio della tradizione giudaico-cristiana non sembra passarsela granché bene. Anzi. Anche lui, stando alla constatazione del folle uomo di Nietzsche, sarebbe morto da quel dì… è che non tutti se ne sono accorti. La tecnica ha espugnato il monte Olimpo: Prometeo si è preso la sua rivincita. L’etica della prossimità, dice Jonas, quella, per intenderci, che si basa sul celebre comandamento evangelico di “amare il prossimo tuo come te stesso”, è ancora valida a livello, per così dire locale, ma segna il passo, si dimostra inadeguata a livello globale. Il sistema tecno-economico che regola, in maniera assolutamente invasiva e capillare il nostro agire quotidiano, che se ne sia consapevoli o meno, ci impone, come collettività, scelte che hanno significative ricadute sul “remoto”, sia in senso spaziale che temporale, di cui non possiamo non assumerci la responsabilità. La prossimità, dinanzi alla tecnica tutta dispiegata, per quanto nobile ed importante, diventa un fatto di nicchia, o, peggio, una lente distorsiva, de-responsabilizzante. Facciamo qualche esempio veloce, sia in senso spaziale che temporale.

Mi è rimasta impressa una pubblicità-progresso di alcuni anni fa che mostrava una mamma impegnata a cambiare il pannolino ad un neonato. Sfilava il pannolino sporco da sotto il sederino del paffutello e lo gettava incurante in un cestino dietro di sé. L’immagine nel fotogramma successivo apriva una finestra temporale e mostrava il medesimo pannolino atterrare su un prato verde in cui il figlioletto, ora divenuto bambino, prova a correre e a giocare facendo lo slalom tra cumuli di spazzatura. O qualcosa del genere. Il messaggio dovrebbe essere chiaro: non posso preoccuparmi solo degli effetti immediati della mia azione – dare sollievo a mio figlio nell’immediato – ma debbo tener conto degli effetti a medio e a lungo termine, non solo in relazione a mio figlio, ma anche in relazione all’ambiente in cui vivrà, ai figli degli altri e ai figli dei figli. Concetti, questi ultimi, assolutamente remoti. Persone che ancora non sono e che non hanno voce per farsi sentire. Ma di cui io, qui ed ora, ho il dovere morale di prendermi cura.

L’esempio del “remoto” in senso spaziale. Ce lo diciamo tutti i giorni, soprattutto da quando infuria la pandemia da covid-19. Il mondo è globalizzato. Il comportamento irresponsabile di un gruppo di persone in India o in Cina può avere effetti deleteri in Brasile o in Cile. Similmente, un vaccino sviluppato in Russia o a Cuba può essere utilizzato per salvare vite in Australia. Pensiamo, però, a fatti più consuetudinari, più “normali”. Le terre rare che vengono utilizzate per produrre in alcune fabbriche cinesi su progetto made in USA gli smartphone che usiamo tutti i giorni, che stiamo usando anche in questo preciso momento, sono estratte, spesso a mani nude, da minatori bambini in Congo. Lo stesso smartphone considerato un prodotto “di consumo” e quindi con una “obsolescenza programmata” (per un motivo o per l’altro, probabilmente, lo dovrai cambiare appena scade la garanzia) finirà in qualche discarica in Ghana o in Nigeria. C’è bisogno di aggiungere altro? L’enormità delle forze economiche e tecniche in gioco, come dice Jonas, è schiacciante. I più, è umano troppo umano, sono in grado, a malapena, di scorgere quello che hanno sotto il naso. A volte, nemmeno quello. Sono gli stessi che dicono “aiutiamoli a casa loro”, come se casa loro non fosse anche casa nostra, e viceversa. Già l’etica della prossimità è di difficile applicazione, figuriamoci quella del remoto! Ritorneremo più in là su questo punto, politicamente decisivo.

Leggo:

«È quantomeno non privo di senso chiedersi se la condizione della natura extraumana, la biosfera, ora sottomessa al nostro potere nel suo insieme e nelle sue parti, sia diventata appunto qualcosa che è dato in custodia all’uomo e avanzi, perciò, nei nostri confronti una sorta di pretesa morale, non soltanto al nostro ma anche a suo favore e in base a un proprio diritto. Se così fosse, sarebbe necessario un ripensamento non di poco conto dei fondamenti dell’etica. Questo comporterebbe la ricerca non soltanto del bene umano, bensì anche del bene delle cose extraumane, estendendo il riconoscimento dei “fini in sé” al mondo naturale e includendone la cura nel concetto di bene umano.»

In questo passo Jonas procede alla fondazione di una vera e propria etica “ecologica”, ovvero estesa a tutti gli organismi viventi (la cosiddetta “biosfera”) e all’ambiente in generale. È una conseguenza delle premesse che abbiamo discusso prima: con l’estensione del potere dell’uomo, grazie alla tecnica, su regioni dell’essere che prima ricadevano sotto altre giurisdizioni, quella divina, quella della necessità o del meccanicismo fisico, s’impone all’umanità un’assunzione di responsabilità senza precedenti. Le origini lontane di tale visione risalgono al Libro della Genesi, in cui leggiamo (Capitolo 9 vv. 1, 2): «Dio benedisse Noè e i suoi figli e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra. Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere.» Ecco, qui si parla di “timore” e “terrore” di tutte le bestie nei confronti dell’uomo e di “potere” concesso da Dio sulla “biosfera”. Ovvero, l’uomo esercita, su mandato di Jahvè, una specie di “signoria divina” sulla Terra. Ora, Jonas suggerisce che all’attributo della potenza l’uomo coniughi quello della “cura”, del “prendere in custodia”, cioè dell’amministrare amorevolmente, assumendosene la responsabilità, quegli esseri che si trovano in balia del suo potere, che possono essere “oggetti della tecnica”. È un po’ lo stesso tipo di rapporto che s’instaura giuridicamente e moralmente tra chi, essendo minore o non essendo in grado di provvedere a se stesso, è affidato alle cure di un tutore. Anche alle cose extraumane, quindi, a cominciare dagli esseri viventi, animali in primis, va riconosciuto un proprio diritto che chiama in causa precisi doveri da parte dell’umanità. Per esempio: grazie il potere conferitomi dalla tecnica, posso sfruttare in maniera intensiva le risorse ittiche di una determinata zona dell’Oceano. A scopo nutritivo, s’intende. Con quale accortezza? Quali diritti dovrei riconoscere alle specie ittiche di cui mi nutro? Diritto alla sopravvivenza come specie, diritto alla riproduzione, diritto ad un ambiente marino non inquinato, ecc. Diritto dei pesci? Sì, certo. È un punto di vista eccessivo? Direi di no. Dalla sopravvivenza dei pesci dipende, tra le altre cose, la possibilità di vita dell’umanità futura, o di una parte di essa, i figli dei figli, i non-ancora-nati, possibilità di vita che può darsi soltanto in presenza di una tenuta complessiva degli attuali equilibri dell’ecosistema globale. Di cui anche l’uomo, in ultima istanza, è parte integrante. Si chiama “visione d’insieme” o “visione olistica” (dal greco to olon “tutto intero”). È il punto di vista di chi amministra ed ha la responsabilità della “casa” nel suo insieme, l’oikos di “ecologia” ed “ecosistema”, del buon genitore, che si sforza di essere giusto, tenendo conto, in primo luogo, delle esigenze dei più deboli e dei più fragili. Non è un concetto difficilissimo da cogliere. Ma forse sono troppo ottimista… Molto più difficile, senz’altro, da integrare nella pratica di vita quotidiana.

Il concetto di “cura” utilizzato da Jonas è mutuato dal linguaggio filosofico di uno dei suoi maestri, Martin Heidegger, uno dei giganti del pensiero novecentesco. Non per niente, Heidegger parla dell’uomo come “pastore dell’Essere”. La cura del mondo extraumano, aggiunge Jonas, impone di estendere agli altri esseri viventi e all’ambiente naturale quel “regno dei fini” di cui parla Kant nella Critica della Ragion Pratica. In breve. Una delle formulazioni del celebre imperativo categorico kantiano recita: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo.” Gli esseri umani vanno considerati come “fini” dell’agire morale, non come mezzi. Ovvero, non vanno oggettualizzati, manipolati, in quanto si devono riconoscere loro quegli stessi attributi di personalità e di libertà morale propri del soggetto agente. È chiaro? Non possiamo ridurre l’umano a mezzo, a strumento, esattamente ciò che accade quando alcuni uomini vengono sottoposti al potere della tecnica al servizio del profitto economico. Avete presente la catena di montaggio in cui finisce intrappolato Charlie Chaplin in una celeberrima scena di Tempi Moderni? Ecco, Jonas propone di estendere lo status di fine dell’azione morale all’intera biosfera, non solo agli umani, ma anche alle scimmie, alle api, alle galline, agli abeti, ai fiumi, ecc.

Andiamo avanti. Leggo:

«Noi ci spingiamo oltre fino ad affermare che la comunanza dei destini dell’uomo e della natura, riscoperta nel pericolo, ci fa riscoprire anche la dignità propria della natura, imponendoci di conservarne l’integrità andando al di là di un rapporto puramente utilitaristico.»

“Comunanza dei destini dell’uomo e della natura”: l’uomo parte integrante della natura. Si tratta di un concetto familiare non solo al mondo antico, ma, direi, a qualsivoglia popolazione etnologica, si pensi ai cosiddetti Indiani d’America o alle tribù di Indios che ancora – forse per poco – sopravvivono in quel che rimane della foresta amazzonica. La novità sta nel concetto di “pericolo”, ossia in quella che Jonas definisce “euristica della paura”, ossia la “premessa metodologica della paura”: questo il significato del vocabolo “euristica”. Che ci piaccia o meno, non ci possiamo aspettare che la tutela dell’ecosistema e la auto-limitazione della tecnica s’imponga urbi et orbi a seguito di una presa di coscienza collettiva dell’umanità o di un miracoloso e subitaneo progresso spirituale. Non è realistico e ormai non c’è più tempo: il tempo della tecnologia e del mercato non hanno nulla a che vedere con il tempo dello spirito o, se preferite, dello sviluppo della neocorteccia in homo sapiens. Per molte questioni, vedi ad esempio l’innalzamento della temperatura globale del pianeta di due-tre di gradi entro il 2050, probabilmente è già troppo tardi. Occorre fare leva, dunque, su un altro principio, quello, appunto, della “paura”. Termine, peraltro, centrale nel pensiero moderno, sdoganato per quanto concerne la filosofia politica da Thomas Hobbes a metà del Seicento. Se per Hobbes è lo Stato-Leviatano a nascere da un patto interindividuale cui si giunge per “paura” della violenza presente nello stato di natura, caratterizzato dalla “guerra di tutti contro tutti” (bellum omnium contra omnes), per Jonas è dalla paura delle sciagure e dell’annientamento dell’umanità cui può dar luogo il Prometeo scatenato, che occorre, realisticamente, partire per la formulazione di una nuova etica e di una politica ad essa coerente. Come dire: innanzitutto pensiamo a sopravvivere o, meglio, a conservare la vita e l’ambiente per come la conosciamo oggi.

Leggo:

«L’esistenza dell’umanità significa semplicemente che gli uomini vivono; che essi vivano bene rappresenta il comandamento seguente. Il puro fatto ontico della loro esistenza diventa, per coloro che non sono stati interpellati prima, il comandamento ontologico in base al quale l’umanità deve continuare ad esistere

Ecco, qui Jonas lo dice in maniera un po’ più complicata per chi non è addentro al suo lessico filosofico, che è, anche in questo caso, di derivazione heideggeriana. Mi riferisco ai due termini “ontico” ed “ontologico”. Entrambi risalgono, manco a farlo apposta, alla filosofia greca e derivano dal participio presente del verbo essere, on. “Ontico” si riferisce a “ciò che riguarda l’ente concreto, empirico”, cioè la pura e semplice presenzialità sensibile di una determinata cosa. La pura dimensione ontica della matita che utilizzo per prendere appunti corrisponde al fatto di poterla tenere tra le dita, sentirne la liscia consistenza, sentirla scorrere sul foglio, ecc. “Ontologico” (oltre ad on abbiamo logos “discorso”) significa “ciò che concerne gli aspetti essenziali dell’essere”. È un concetto decisamente più astratto. Il “comandamento ontologico” applicato all’umanità di cui parla Jonas, non si riferisce alla mera esistenza di questo o di quel membro della nostra specie, a me o a te che ascolti questa lezione, bensì alla possibilità che l’umanità possa continuare ad esistere in quanto specie. Dunque, chiama in causa la possibilità di enti che ancora non sono: i nostri nipoti, per esempio. O i nipoti di Abdul e Fatima.

Arriviamo, quindi, alle diverse formulazioni del nuovo imperativo categorico con cui Jonas propone di superare l’imperativo kantiano. Leggo:

«Un imperativo adeguato al nuovo tipo di agire umano e orientato al nuovo tipo di soggetto agente, suonerebbe press’a poco così: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra”, oppure, tradotto in negativo: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di tale vita”, oppure, semplicemente: “Non mettere in pericolo le condizioni della sopravvivenza indefinita dell’umanità sulla terra”, o ancora, tradotto nuovamente in positivo: “Includi nella tua scelta attuale l’integrità futura dell’uomo come oggetto della tua volontà”.»

Come vedete, si tratta di un imperativo della “responsabilità” e non della pura “intenzionalità” come nel caso dell’imperativo kantiano. E non si risolve nell’immediatezza dell’agire, nella prossimità del soggetto verso il quale l’azione è rivolta. Le buone intenzioni non bastano: occorre valutare attentamente anche gli effetti, le conseguenze del proprio agire, lungo un arco di tempo più o meno esteso nel futuro. Riempire la vasca da bagno fino all’orlo o farsi tre docce al giorno, può essere, di per sé, considerato un atto eticamente irrilevante, avendo abbondanza di acqua a disposizione. Ma non è così, a ben guardare. Debbo responsabilmente farmi carico anche di tutti coloro che a causa della reiterazione del mio atto non hanno acqua sufficiente per vivere oggi o non l’avranno in futuro. Debbo cioè tener conto di quella dimensione del “remoto” che l’etica tradizionale, Kant compreso, non considerava eticamente rilevante. Mi sono spiegato?

Ma di cosa abbiamo bisogno per espandere i confini, spesso assai ristretti, della nostra capacità di rispondere delle azioni che compiamo qui ed ora? Ovvero: come si coltiva e si sviluppa il senso di responsabilità? Formulo la domanda in un’altra maniera ancora, se mi permettete: cosa possiamo fare noi a scuola (e non solo) per diventare più responsabili? Abbiamo bisogno, essenzialmente, di due cose. La prima: rendersi conto di quello che avviene nel mondo contemporaneo, informarsi, informarsi e ancora informarsi, in maniera attiva, partecipata, critica, e, soprattutto, imparare ad aver paura, non chiudere gli occhi dinanzi a ciò che ci spaventa. La seconda: diffondere lo studio delle scienze a tutti i livelli, a cominciare dal metodo scientifico in sé, dai sei a novant’anni – avete presente quei giochi di società cui tutti possono partecipare, in questo caso “debbono” partecipare – attivando una comunicazione e divulgazione scientifica degna di questo nome. Quanto siano importanti, decisivi direi, l’uno e l’altra, lo abbiamo sperimentato e lo stiamo sperimentando sulla nostra pelle tutti i giorni dall’inizio della pandemia da covid-19.

La scienza e la tecnica, il Prometeo scatenato, ci impone una nuova etica, mettendoci dinanzi a scenari terrificanti – proprio oggi leggevo dei 50 gradi (con quasi 500 morti per colpi di calore) registrati a Vancouver in Canada e dei 40 gradi registrati nella Russia artica. Ma nello stesso tempo, se utilizzata con prudenza e avvedutezza, può offrirci soluzioni inedite ai problemi globali, a cominciare dal cambiamento climatico in atto. Scienza e tecnica, dunque, mantengono intatta tutta la loro ambivalenza – è opportuno sottolinearlo con forza – che dipende dalla loro natura strumentale: è il sapere etico, il nuovo modello di saggezza, di phronesis, a stabilire i fini del nostro agire. Il “principio responsabilità” prevede che i mezzi siano correttamente utilizzati in vista dei fini, o, meglio, del fine ontologicamente fondato: la sopravvivenza indefinita della specie umana sulla Terra. Se invece permettiamo che le parti s’invertano, ovvero che l’umano e il naturale, fini in sé, divengano sempre più strumenti dell’imperante sistema tecno-economicista, ebbene la partita della responsabilità sarà persa e il destino della biosfera sarà segnato. La tecnica elevato ad assoluto, tende inevitabilmente a deresponsabilizzare, come il denaro per il denaro. E la nostra, a ben guardare, è una società che tende ad essere sempre più deresponsabilizzata, a partire dai palazzi della politica e dei cosiddetti decisori pubblici. Ma di politica ci occuperemo in una prossima lezione…

Vediamo gli ultimi due passi che avevamo in animo di leggere e commentare:

«Il che capovolge l’abituale rapporto fra dover essere e potere. Primario non è più ciò che l’uomo deve essere e fare (l’imperativo dell’ideale) e quindi potrà o non potrà, primario è ciò che egli fa già perché lo può fare: il dovere consegue al fare e gli viene attribuito dalla concatenazione causale delle sue azioni. Kant diceva: “puoi, giacché devi”. Oggi noi siamo costretti a dire: “devi, giacché fai, giacché puoi”, ossia, il tuo esorbitante potere è già all’opera.»

Il passaggio, di primo acchito, può apparire complicato. Vediamo, per chiarire, di utilizzare altre parole. Nell’etica classica – e con “classica” intendiamo quella della “prossimità” che precede la svolta di Jonas – il dover essere, il dovere, viene prima del potere. In che senso? Agisco in base ad un preciso dovere, ad un comandamento morale, ad un “imperativo categorico”, per usare la formula di Kant. Ho il dovere di salvare la vita di una persona che sta annegando in mare, assisto dalla spiaggia e sento le sue invocazioni d’aiuto: dunque, farò tutto ciò che, in quel momento, è in mio potere per prestarle soccorso. Ma se non sono un bravo nuotatore, la situazione potrebbe escludere, razionalmente, che io metta a repentaglio anche la mia vita, oltre a quella del malcapitato, tuffandomi in mare. Forse potrebbe essere più razionale cercare aiuto, rivolgendomi, per esempio, ad un bagnino. Eccetera, eccetera. L’obbligo morale di prestar soccorso viene comunque prima del potere effettivo di mettere in atto un’azione realmente efficace. Ecco perché, nel caso di Kant usiamo le espressioni “etica deontologica”, cioè etica del dovere (“deontologico” viene dal greco deon “dovere”), oppure “etica dell’intenzionalità”, cioè la correttezza morale dell’agire, come abbiamo detto, si misura dalla bontà delle intenzioni, non dagli effetti che essa di fatto produce.

Ora, nell’età della tecnica tutta dispiegata, il potere precede il dovere, e il dovere deriva, in un certo senso, dal potere. Ossia da ciò che è già in atto. Facciamo l’ennesimo esempio, tornando a quel che dicevamo a proposito del disastro di Černobyl’: possediamo le conoscenze e le tecnologie per “maneggiare” l’energia nucleare. Possiamo, abbiamo potere sul nucleare: dunque “dobbiamo”, abbiamo il dovere morale di utilizzarlo compatibilmente con la preservazione dell’ambiente e della vita umana sulla Terra.

Leggo:

Soltanto il più radicale fraintendimento dell’essere della libertà può pensarla in questo modo. Proprio al contrario, la libertà consiste e vive nel misurarsi con la necessità […]. La separazione dal regno della necessità sottrae alla libertà il suo oggetto; senza di esso la libertà si annulla come la forza senza la resistenza. […] L’errore fondamentale dell’intera concezione di Marx come di Bloch risulterà essere la separazione della libertà dal regno della necessità; l’idea quindi che quello ha inizio dove questo cessa e che la libertà si colloca al di là della necessità, anziché consistere nell’incontro con essa.

In questo passo, con cui si conclude la nostra “scorribanda” nell’opera di Jonas, il nostro critica il cosiddetto “principio speranza” formulato in un celebre saggio dal filosofo marxista Ernst Bloch negli anni Cinquanta. Il pensiero di Bloch e quello marxiano in generale si basano sul non-ancora-realizzato, su un modello utopico di umanità futura, frutto delle possibilità di sviluppo dell’umano, sulla carta illimitate, in cui occorre credere, sperare. È un messaggio “ottimistico”, per così dire, che espande illimitatamente la libertà di autodeterminazione. La linea di pensiero di Jonas è decisamente più realistica: essa si basa, come sappiamo sul “principio responsabilità” (non a caso nel titolo del suo libro Jonas riecheggia il “principio speranza” blochiano). Parte dalle condizioni effettive di sviluppo in cui si trovano le società umane e fa interagire dialetticamente la libertà con la necessità. Ne abbiamo ampiamente parlato nella precedente lezione dedicata al “problema del male dopo Auschwitz”: la libertà si dà sempre in relazione alla necessità. Siamo liberi nella misura in cui ci confrontiamo con l’inerzia necessitante della realtà naturale, sociale, tecnologica, culturale, così come si presenta in un determinato momento storico. Non siamo liberi, oggi, di impedire, da qui al 2050, l’aumento della temperatura del pianeta di oltre 2 gradi centigradi. Siamo liberi di prendere, a livello nazionale ed internazionale, la decisione politica di stabilire un percorso effettivo di diminuzione delle emissioni umane di CO2 nell’atmosfera, di rispettarlo negli anni a venire e di farlo rispettare a tutti i paesi membri delle Nazioni Unite –anche con l’uso della forza? È possibile? Ne dubito… Di quali conoscenze scientifiche e di quali strumenti tecnologici disponiamo per provare a centrare questo obiettivo? Quali regimi politici sono realisticamente più idonei a far rispettare un simile programma che, inevitabilmente, comporterà lacrime e sangue per una parte consistente dell’umanità? Quali forme di economia? Ovvero, possiamo ancora parlare, oggi, di “decrescita felice” riprendendo, per esempio, la più che quarantennale operazione di studio, di elaborazione filosofica e di divulgazione di un Serge Latouche? Ecco, queste sono le domande che forse Jonas si porrebbe oggi. In una prossima lezione, sempre partendo da Jonas, discuteremo dei regimi politici che potrebbero risultare più in linea oggi con la teoria del nostro filosofo. Alla prossima lezione, dunque. Buone meditazioni.

Francesco Dipalo

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