mercoledì 15 Novembre 2023
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Il problema del male dopo Auschwitz. La teodicea di Hans Jonas


Francesco Dipalo. Registrazione dell’audio-lezione

Buongiorno. Ringrazio tutti gli ascoltatori per la fiducia accordatami. Prima di analizzare il testo di Hans Jonas cui è dedicata questa lezione, consentitemi una breve premessa.

Auschwitz è innegabilmente un Evento della storia del mondo. Solo se lo si intende in questo modo, si può parlare di un prima e di un dopo Auschwitz. Quando, dopo la Seconda Guerra Mondiale, con l’imperativo categorico della memoria si cercava di contrastare la tentazione dell’oblio, la voglia di dimenticare per lasciarsi alle spalle gli orrori della guerra, o, in molti casi, per sfuggire alla giustizia degli uomini minimizzando e falsificando l’accaduto, ci si è chiesti da più parti se, dopo Auschwitz, fossero ancora possibili la letteratura e la poesia, la fede e la speranza, se tra i recinti elettrificati di Auschwitz non si fosse definitivamente spenta ogni scintilla di umanità. Oggi sappiamo che letteratura e poesia non sono morte. E nemmeno la riflessione filosofica si è estinta. Evidentemente l’umanità è alquanto resiliente. Essere dotati di resilienza, tuttavia, non significa ignorare gli eventi. Può essere una strategia utile nel breve periodo, quando il trauma è ancora così forte da ammutolirti. Inutile richiamare la vostra attenzione su quanto, in questo primo ventennio del XXI secolo, mentre vanno scomparendo gli ultimi testimoni viventi di quell’Evento, si abbia bisogno di ricordare. Ma in che senso dobbiamo intendere Auschwitz come un Evento spartiacque? In che senso, per dirla con Jonas, esso appartiene tanto alla storia sacra, quanto a quella profana? E perché mai Auschwitz dovrebbe chiamare in causa Dio trasformandosi in questione filosofica e teologica?

La portata filosofica dell’Evento Auschwitz ruota intorno a questa domanda: quale Dio ha potuto permettere ciò? E, come è facile intuire, la domanda intorno a Dio sorge e si pone in tutta la sua tragicità nel momento in cui, come esseri umani, ci confrontiamo con il male. Nulla di più umano e di più filosofico in un certo senso. Se vogliamo dar retta a Platone il quale, già ventiquattro secoli fa, rilevava che all’origine della filosofia ci sarebbe thauma, la “meraviglia”, qualora si legga il termine in maniera benigna e superficiale, o piuttosto, a voler essere più precisi, lo “sbigottimento”, il “timor panico”, lo “sgomento” che si prova dinanzi all’inaudito. E l’inaudito, ciò che genera terrore, ha sempre a che vedere con il male e con la sofferenza. Tentare di dar senso all’inaudito per diminuirne la portata terrifica è, dunque, connaturato al sorgere stesso del domandare filosofico.

Ed è innegabile che Auschwitz rappresenti, in sommo grado, un “inaudito” terrifico con il quale è necessario confrontarsi. Non si dà un evento tra gli eventi. Non si danno “eventi simbolo”. Ogni evento è a se stante. Generalizzare significa misconoscere e i paragoni sono, in genere, fuorvianti. Auschwitz va trattato in quanto tale.

Lo scrittore Elie Wiesel, premio Nobel per la pace 1986, che Auschwitz lo ha vissuto in prima persona, ne La notte evoca l’impiccagione di tre prigionieri tra cui un bambino, “l’angelo dagli occhi tristi”. Ascoltiamone le parole:

«I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi.

Viva la libertà! — gridarono i due adulti.

Il piccolo, lui, taceva.

— Dov’è il Buon Dio? Dov’è? — domandò qualcuno dietro di me. A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte. Silenzio assoluto. All’orizzonte il sole tramontava.

— Scopritevi! — urlò il capo del campo. La sua voce era rauca.

Quanto a noi, noi piangevamo.

— Copritevi!

Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora…

Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti.

Dietro di me udii il solito uomo domandare:

— Dov’è dunque Dio?

E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:

— Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…»

“Cerco Dio, cerco Dio”, andava urlando al mercato il folle uomo de La Gaya Scienza di Nietzsche: l’Evento Auschwitz è, in certo senso, la profezia della morte di Dio divenuta fattualità. Con un di più: a dissanguarsi sotto i nostri pugnali non è l’idea, bensì il “corpo” di Dio, fattosi umanità. E si tratta di un omicidio senza attenuanti, accuratamente pianificato e perpetrato a sangue freddo con l’ausilio delle tecniche psichiche, logistiche ed ingegneristiche più sofisticate. Tra l’annuncio nietzschiano ed Auschwitz, insomma, c’è la responsabilità umana. “Responsabilità”, un termine chiave nella filosofia jonesiana, come vedremo in seguito.

Dunque, Auschwitz chiama in causa Dio, ma non come il folle nietzschiano per riferirci della sua morte. Di questo già eravamo al corrente. La questione è un’altra. Quale Dio-bambino muore ad Auschwitz? Quello della nostra tradizione bimillenaria? Il Dio degli eserciti, terribile, maestoso, onnipotente? Il Dio-Bene, perfezione assoluta, della tradizione cristiana e neoplatonica? Un novello Cristo ri-gettato ingloriosamente sulla terra e condannato ad una morte anonima, senza alcun progetto di redenzione e di salvezza? Auschwitz, questa la lezione di Jonas, ci obbliga in realtà a ripensare Dio radicalmente. Dalle fondamenta, per così dire. Una sorta di “ground zero” della teologia. Che ci riguarda tutti, a prescindere dalla nostra personale visione del mondo, religiosa o laica che sia.

Dei tre impiccati di cui parla Wiesel due proclamano, prima dell’esecuzione, la loro fede nella libertà, cioè nell’uomo che conosce il bene e il male ed è libero di operare l’uno e l’altro. Il terzo, invece, “l’angelo dagli occhi tristi”, resta in silenzio. Alla domanda disperata del compagno di prigionia che si chiede dove sia Dio in quel momento, Dio risponde nel cuore dell’uomo indicando il bambino che penzola dalla forca. Dio è dunque il bambino. Il bambino è cifra della bontà ed innocenza di Dio, nonché della sua assoluta impotenza. Dio non è libero, non può scegliere tra il bene e il male, privilegio, tragico, dell’umanità.

Genesi 1, 26: “facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”. A questa “somiglianza” tra umano e divino, confusi insieme nel corpo e nel sangue della vittima sacrificale allude il salmo Tenebrae composto dal poeta di origine rumena Paul Celan, una delle voci più intense della poesia post-Olocausto:

«Siamo vicini, Signore, vicini e afferrabili.

Già afferrati, Signore, l’uno nelle grinfie dell’altro, come fosse il corpo di ognuno di noi il tuo corpo. Signore.

Prega, Signore, accanto a noi prega siamo vicini.

A sghimbescio andavamo andavamo per chinarci verso conca e cratere.

All’abbeveratoio andavamo, Signore.

Era sangue, era

ciò che tu hai sparso. Signore.

Riluceva.

E ci mandava la tua immagine negli occhi, Signore.

Occhi e bocca così aperti e vuoti, Signore.

Noi abbiamo bevuto, Signore.

Il sangue e l’immagine che era nel sangue. Signore.

Prega, Signore siamo vicini.»

L’agnello sacrificale si identifica con Dio, vittima e carnefice allo stesso tempo. Un’immagine cruda, realistica che non lascia speranza di redenzione e resurrezione: nessuna interpretazione cristologica è qui possibile. Dio in questa circostanza non è assente, lontano, non lo si può invocare come “salvatore”, come fa Gesù sulla croce col Padre. Dio è presente e la sua presenza accanto all’agnello e nello stesso agnello condotto al macello è cifra della sua impotenza, della sua totale identificazione con la creatura, nei panni di Abele e di Caino, dell’innocente e dell’assassino. Le “tenebre” cui allude Celan sono quelle del genocidio, non quelle del Golgota. Morimmo invano, insieme al nostro Dio.

Auschwitz come “Evento”, dicevamo, in cui, attraverso la parola dell’uomo, Dio ha rivelato se stesso, manifestando un aspetto della propria essenza che l’uomo non aveva ancora colto e al quale la filosofia è chiamata a conferire lo statuto di verità universale: la divina impotenza. Auschwitz, dunque, non rappresenta un “Evento” disvelante in senso nichilista. Dietro Auschwitz non c’è il Nulla della tecnica heideggeriana. C’è una nuova possibile chiave di lettura del divino, una nuova “teologia filosofica”. Questo è il compito, la ricognizione che si propone di portare a termine Hans Jonas.

***

Il testo di Jonas sul Concetto di Dio dopo Auschwitz è un discorso pronunciato nel 1984 in occasione del conferimento del premio Rabbi Leopold Lucas all’Università di Tubinga. Prendendo spunto dal fatto che Lucas era morto a Theresienstadt, e che la moglie di quest’ultimo, così come la madre di Jonas, era stata uccisa ad Auschwitz, Jonas produce una breve riflessione di “teologia speculativa”, per l’esattezza una moderna ed originale “teodicea”. Che cosa significa “teodicea”? Dal greco theòs, “dio”, e dìke, “giustizia”, il termine è stato coniato da Leibniz (un filosofo tedesco razionalista vissuto tra il 1646 e il 1716) e si riferisce ad una teologia filosofica, basata pertanto su argomentazioni razionali, che mira a rispondere alla domanda sull’origine del male. Ovvero per dirla in latino: «Si Deus est, unde malum?», se c’è Dio [che è, per definizione, bontà suprema, Bene assoluto] da dove trae origine il male? Come si può razionalmente coniugare il male presente nel mondo con la creazione divina? Oppure: perché Dio permette il male? Male, che possiamo declinare in tante maniere diverse, dal male fisico, al male psichico, al male morale, fino al male assoluto, il baratro nientificante aperto dall’esperienza di Auschwitz.

Il motivo che muove Jonas è personale, autobiografico. La filosofia, la fanno i filosofi in carne ed ossa, nel corpo del tempo in cui vivono: [cito]

«Lo scelsi con timore e tremore. Pensavo di essere in debito verso quelle ombre, di non potere negare loro qualcosa che somigliasse a una risposta all’invocazione, spentasi ormai da lungo tempo, che avevano rivolto a un Dio muto.»

“Il debito verso le ombre”: è un tema antico, se ci pensiamo, comune a tutte le tradizioni culturali. Stavo pensando, per esempio, alla tragedia greca, a quel legame morale-esistenziale intergenerazionale che lega insieme i membri di un ghenos o di una gens – i due termini, greco e latino, hanno la stessa radice – condensato nella formula “le colpe dei padri ricadono sui figli”. Nella cultura ebraica, che è matrilineare, ad essere chiamate in causa, come nel caso specifico di Jonas, sono le “madri” oltre che i padri. Ad Auschwitz, è come se le parti si invertissero. Tocca ai figli superstiti espiare la colpa di essere sopravvissuti all’Olocausto, provando a rispondere, a posteriori, a quella domanda spentasi, senza risposta, sulle labbra dei genitori: “perché mio Dio, perché?” L’espiazione della colpa spetta alla generazione dei figli, ma, paradossalmente, non viene loro trasmessa dai genitori o dai parenti assassinati nel lager: loro muoiono innocenti, perché nessun peccato al mondo può giustificare Auschwitz come contrappasso. Chi sopravvive porta con sé il peso del dover ricordare e del dover provare a dare una risposta. Un peso spesso intollerabile che spinse molti sopravvissuti al suicidio.

Jonas prende le distanze dal neo-positivismo logico imperante nel XX secolo, secondo il quale le questioni teologiche producono soltanto dei non-sense, affermazioni prive di senso. Porsi il problema di Dio in termini razionali, senza pretendere di giungere a conoscenze assolute – al massimo dirà Jonas al termine della conferenza, ci è concesso “balbettare” qualcosa intorno a Dio – ha valore, eccome. Il punto di vista del neopositivismo si basa sul fatto che si possa conoscere soltanto ciò che cade sotto i nostri sensi e che abbia effettivamente senso parlare di ciò che si può sensibilmente conoscere. La teologia non sarà questione da confondersi con la scienza positiva, come ci insegna Kant, ma ciò non toglie che essa sia esigenza insopprimibile ed irrinunciabile della ragione umana. Non possiamo non porci problemi che riguardano i massimi sistemi. [Cito]

«In questo contesto si impone la domanda: che cosa ha aggiunto Auschwitz a ciò che da sempre siamo in grado di sapere sulle proporzioni delle cose spaventose e terribili che gli uomini sono capaci di commettere verso i loro simili? A ciò che da sempre hanno commesso? E che cosa in particolare, che noi ebrei non abbiamo conosciuto in una storia millenaria di sofferenze e di dolori, patrimonio essenziale della nostra memoria collettiva? La domanda di Giobbe è da sempre il problema fondamentale della teodicea — in senso generale in quanto si riferisce all’esistenza del male nel mondo, per l’ebraismo in particolare in quanto rende più aspro e difficile da comprendere l’enigma dell’elezione, dell’alleanza stipulata fra Israele e il suo Dio.»

Le interpretazioni precedenti, ormai classiche: il male come punizione di Dio (o della Natura come “ipostasi laica”, ovvero incarnazione laica di Dio) verso un’umanità infedele (o un popolo eletto che ha violato il “patto” nel caso degli Ebrei); il male come occasione di “testimonianza di fede” e “redenzione” (la vittima – il capro espiatorio, il “Messia”, il Cristo – ecc. diventa “santa”, viene “sacralizzata”). Ma nessuna colpa, nessun delitto, non importa quanto efferato, può giustificare, come dicevamo, quello che i prigionieri patirono ad Auschwitz. Tanto meno quello che patirono gli innocenti, i bambini, i neonati. Nessuna volontà o possibilità di martirio: i deportati non ebbero alcuna scelta. Non fu imposto loro di rinnegare la fede dei padri, non fu imposto loro di rinunciare al Dio di Israele. Dunque, non potendo sottrarsi al destino che li attendeva per ragioni che nulla avevano a che fare con la dimensione religiosa e morale – la razza! pagavano lo scotto di essere quello che erano – non ebbero possibilità di trasformare la loro decisione di non abiurare Dio in una forma di martirio, cioè di testimonianza di fede. Martirio viene dal greco martyrion, “testimonianza”, e martire significa, appunto, “testimone”. [Cito]

«Nulla di tutto ciò può essere di una qualche utilità per comprendere l’evento che ha nome Auschwitz. Non vi è più posto per fedeltà o infedeltà, fede o agnosticismo, colpa e pena, o per termini come testimonianza, prova, e speranza di salvezza e neppure per forza e debolezza, eroismo o viltà, resistenza o rassegnazione. Di tutto ciò non sapeva nulla Auschwitz che divorò bambini che non possedevano ancora l’uso della parola e ai quali questa opportunità non fu neppure concessa. Chi vi morì, non fu assassinato per la fede che professava e neppure a causa di essa o di una qualche convinzione personale. Coloro che vi morirono, furono innanzitutto privati della loro umanità in uno stato di estrema umiliazione e indigenza; nessun barlume di dignità umana fu lasciato a chi era destinato alla soluzione finale — nulla di tutto ciò era riconoscibile negli scheletrici fantasmi sopravvissuti nei Lager liberati.»

E, per paradosso, questo capitò in particolare al “popolo eletto”, in gran parte oramai laicizzato, col pretesto dello pseudo-concetto della “razza”. L’elezione che si muta in maledizione. E, ecco, dunque, la domanda delle domande: [cito]

«Dio permise che ciò accadesse. Ma quale Dio poteva permetterlo?»

Per la visione ebraica la domanda è ancor più scottante rispetto alla concezione cristiana cui siamo abituati noi. Mentre il cristiano attende la salvezza dal male nell’“al-di-là”, in un altro piano, astorico ed eternizzante, del reale, perché questo mondo, questa “valle di lacrime”, è il regno del male, il dominio di Satana (nel cristianesimo sono presenti, sia pure in maniera meno radicale, forme di dualismo gnostico); ebbene, per l’ebreo, al contrario, la partita si gioca tutta nell’“al-di-qua”: il mondo, questo-mondo-qui, è il luogo della creazione, della giustizia e della salvezza divina. Ma, soprattutto, Dio si manifesta nella storia, è il signore della storia, è un Dio che si fa storia. A maggior ragione, quindi, Auschwitz non può non chiamare in causa Dio. Per questo occorre ripensare Dio alla luce di Auschwitz. Le vecchie risposte non vanno più bene.

Ovviamente possiamo anche scegliere di rinunciare all’idea di Dio, liberarcene una buona volta. Chi non intendesse farlo, però, è costretto a questo ripensamento in chiave teologica. A ben guardare, l’orizzonte del non-credente che volesse tentare di dare una risposta alla domanda, è ancora più ristretto. Essere laici, in tal caso, forse paga di meno. Ma è, indubbiamente, questione soggettiva.

A questo punto, Jonas ricorre ad un mito come espediente, come forma di comunicazione che risale allo stesso Platone, giustificata dall’impossibilità, o dalla estrema difficoltà, di rappresentare in termini concettuali ciò che travalica il mondo sensibile. Meglio usare immagini. [Cito]

«In principio, per una scelta imperscrutabile, il fondamento divino dell’essere decise di rimettersi al caso, al rischio, e alla molteplicità infinita del divenire. E lo fece in modo totale, senza riserve: abbandonandosi all’avventura dello spazio e del tempo, la divinità non tenne nulla per sé; nessuna sua parte rimase indenne e incontaminata, per poter governare, dirigere e da ultimo garantire dall’al-di-là l’errabonda metamorfosi del suo destino nella creazione. Lo spirito moderno è il risultato di questa assoluta immanenza. Il coraggio o la disperazione che lo caratterizzano, in ogni caso la sua amara onestà, prendono molto sul serio il nostro essere-nel-mondo: considerando il mondo come una realtà abbandonata a se stessa, che non subisce le sue leggi come un’ingerenza esterna, non addolcisce l’asprezza del nostro prendervi parte, ricorrendo ad una provvidenza extra-mondana. In modo analogo occorre pensare il mito qui proposto dell’esser-nel-mondo di Dio.»

Attenzione: “immanenza”, qui, non è sinonimo di “panteismo”. Dio non è il mondo, mantiene una sua forma di trascendenza. Il mondo è il frutto di una scommessa, di una libera decisione, di un affidarsi all’alea del caso e del fluire del divenire: Dio ha alienato se stesso nel mondo. Può perdere, può vincere: si tratta appunto di un rischio, di un azzardo. Può trasfigurarsi o “sfigurarsi”. Non scrive il copione della storia: è come un regista pirandelliano che assiste alla recitazione a soggetto di un gruppo di “personaggi in cerca d’autore”. [Per intenderci, la “recitazione a soggetto” è quella tecnica che permette agli attori di stare sul palcoscenico senza un vero e proprio copione da ripetere per cui essi inventano sul momento dialoghi e colpi di scena.]

Osserviamo il libero gioco della materia: flussi di particelle e di energia – oggi i fisici parlerebbero di “quanti”. Per miliardi di anni. E poi, d’improvviso, la vita. Dalle meccaniche celesti alla biologia. Il Dio “spettatore” della creazione, emotivamente preso, ha un sussulto di gioia e di speranza. Con la vita si ha il sentire, il percepire, l’intelligenza. Forse, la creazione, dopo tutto, è un bene… la scommessa è stata proficua, il lancio di dadi fortunato…

Ma alla vita è connaturata la morte. Non c’è vita senza morte. In questo, l’organico non può sfidare l’inorganico, la biologia diverge dalla fisica. La vita è l’avventura della mortalità, della finitudine. Senza finitezza non ci sarebbe molteplicità. Gli individui debbono succedersi sul palcoscenico della storia per poter rappresentare sino in fondo il dramma della vita.

Attraverso il dispiegarsi del multiforme mondo della vita, Dio scopre se stesso, rivela a se stesso la propria essenza nascosta. Un’immagine, quella usata qui da Jonas, che ricorda, per alcuni versi, le tappe iniziali dello svolgimento auto-coscienziale dello Spirito Assoluto hegeliano, salvo il fatto, non di poco conto, che il percorso storico di autocoscienza dello Spirito hegeliano non ammette l’alea e il caos: il Reale è rigorosamente Razionale. Direi che il mito narrato da Jonas richiami piuttosto il concetto di “slancio vitale”, élan vital, di un altro grande filosofo, spiritualista, di origine ebraica: Henri Bergson. Fonte comune ad entrambi è sicuramente la Qabbalà che Jonas citerà espressamente verso la fine della conferenza.

Eternità, dunque, che si fa tempo in un processo di continua evoluzione dall’inorganico all’organico, al senziente, all’intelligenza umana. A questo stadio finisce l’innocenza e subentra la consapevolezza del bene e del male: [cito]

«E trema, poiché l’impulso dell’evoluzione, sostenuto e guidato dalla sua stessa forza d’inerzia, oltrepassa la soglia dove cessa l’innocenza e per la partecipazione divina subentra un criterio del tutto nuovo della vittoria e della sconfitta. L’origine dell’uomo è l’origine stessa del sapere e della libertà e, grazie a questo dono estremamente ambiguo, l’innocenza di un soggetto che è pienezza di vita, lascia il posto al compito della responsabilità che agisce e opera in un dominio segnato dalla separazione di bene e male. […] L’immagine di Dio, quale stentatamente emerge dal tutto fisico finché è all’opera nelle ampie e mutevoli spirali della vita preumana, con quest’ultima svolta e grazie a un’accelerazione drammatica del movimento, passa alle problematiche cure dell’uomo per realizzarsi nella salvezza o nella perdizione a seconda di ciò che egli fa di sé e del mondo. E l’immortalità umana consiste nella possibilità inaudita che l’uomo ha di incidere nel destino stesso di Dio, cioè nella sua capacità di agire efficacemente sulla condizione globale dell’Essere eterno. La Trascendenza diviene consapevole di se stessa con la comparsa dell’uomo e da quel momento ne segue l’agire trattenendo il respiro, sperando e corteggiandolo, con gioia e con tristezza, con soddisfazione e disinganno; e, come credo, facendosi sentire, senza entrare direttamente nella dinamica del dramma che si svolge sul palcoscenico del mondo. Non potrebbe darsi che il Trascendente stesso — grazie al riverbero della sua condizione, oscillando in sintonia con l’oscillare dell’instabile bilancia delle cose umane — proietti luci ed ombre sul paesaggio umano?»

Che Dio insolito è questo di Jonas che si rimette nelle mani della sua creazione ultima, l’Uomo! O meglio, nelle mani del caso che ha guidato i movimenti del cosmo dalla dimensione sub-atomica a quella organica, sino alla rete neuronale autoconsapevole… Per non parlare delle “problematiche cure dell’uomo”… Dio che si fa “bambino” o capro espiatorio, come abbiamo visto in apertura nella poesia di Celan, che soggiace, innocente, puro del nitore del latte, alla responsabilità terrifica che Egli lascia all’Uomo. Un Dio paradossale, che regge il regno del Tutto abdicando… E dall’altro lato, un Uomo che si ritrova sulle spalle una libertà e, di conseguenza, una responsabilità non richiesta, per di più non in assenza, ma in presenza di Dio! Lo stesso, dirompente effetto sartriano, la “maledizione di essere liberi”, ma con Dio al posto del Nulla! Ve lo figurate? Non saprei dire con certezza, ma immagino che, in uno scenario del genere, a qualcuno risulterebbe senz’altro più facile, decisamente più facile, aver fede nell’assenza del divino, nell’Assurdo di Camus o nell’immanentismo assoluto spinoziano. Ma no. Manco per niente. Jonas non rinuncia alla Trascendenza divina, a Dio come Altro-dal-mondo, ma il cui destino si compie comunque nel mondo, un destino che Egli patisce, di cui è consapevole, ma su cui non ha alcun potere. Il suo “potere” consiste, paradossalmente, nella rinunzia ad ogni forma di potere.

Da qui potremmo stabilire una sorta di analogia tra “potere” e “male”: senza potere non si dà alcun male, male inteso come aspetto dialetticamente “opaco” del bene. Male come negativo di bene. A se stante, incontaminato, rimane solo il Bene assoluto dell’agnello da latte, dell’innocente che è del tutto impotente, ma sa. Ecco la nostra maledizione. Si chiama libertà, o meglio responsabilità. I due termini in Jonas sono strettamente connessi. La libertà è il polo desiderativo, la scintilla di luce che precede il polo attuativo, cogente, tenebroso, della responsabilità, quelle colpe dei padri che son destinate a ricadere sempre sulle spalle dei figli, oltre che degli stessi padri. Ne parleremo poi studiando il Principio responsabilità, l’opera in assoluto più famosa di Jonas. Ma qui il Dio degli Ebrei è più “subdolo”, in un certo senso, rispetto agli dèi greci. Egli concorre al Tutto, non concorrendo a niente. Gli dèi greci lo zampino nelle vicende umane ce lo mettono, eccome. C’è Anànche, c’è il Fato al quale posso rimettermi, gustandomi il caldo abbraccio consolatorio del fatalismo. Nessun fatalismo è permesso col Dio di Jonas, un padre che non fa il padre, che non ci traghetta nell’infanzia e nell’adolescenza, ma ci getta a capofitto nell’età adulta, nell’ “ora veditela tu”. Perché si è uomini, pienamente uomini, nel momento in cui si è consapevoli della valenza etica (e, in un certo senso, metafisica) del proprio agire e ci si scopre responsabili. Non un attimo prima, né un attimo dopo. Ecco, questo potrebbe essere uno spunto critico alla concezione jonesiana da una prospettiva ellenica. Rimane il fatto che Jonas, qui, soprattutto qui, è pensatore ebraico, e, per quanto originale, va compreso nella prospettiva filosofico-teologica ebraica.

Continuiamo l’analisi del mito. Si tratta, in primo luogo, di un Dio sofferente. Chiara è la differenza rispetto alla tradizione cristiana: la sofferenza di Dio non è un accadimento storicamente determinato (leggi crocifissione di Gesù Cristo), né è finalizzata alla salvezza dell’umanità. Non è un unicum (dunque non è evento) e non ha alcuna valenza salvifica.

La sofferenza, il male inteso come sofferenza, dunque, riguarda la divinità sin dal momento della creazione. Va accentuandosi col passare del Tempo. Anzi, possiamo affermare che, in un certo senso, ha a che vedere con il Tempo, con la temporalità in sé. Il Dio che si fa creatore e abdica alla sua opera, la creazione, dà avvio al tempo e alla temporalità, intesa come Storia nel momento in cui l’uomo fa la sua comparsa, si sottomette.

Questo aspetto sembra confliggere con il concetto di maestà di Dio. È un concetto assolutamente anomalo, nuovo. Siamo disposti ad ammettere che ci sia male nel mondo e che le creature conoscano la sofferenza in questa “valle di lacrime”, ma non che il divino ne sia toccato, se non nell’atto deliberato e teleologicamente orientato di “salvare l’Uomo”. Insomma, la sofferenza del divino ha senso soltanto in una prospettiva cristologica. Un Dio sofferente per nulla, in balia delle stesse forze messe in moto con la creazione, ripugnerebbe alla stessa tradizione cristiana. Infatti, anche se la sofferenza è centrale nella visione cristiana, essa tuttavia non attinge il Dio trascendente, il Padre, ma solo il Figlio, che si è fatto Uomo. La sofferenza, dunque, non invade la sfera della trascendenza, né sminuisce maestà ed onnipotenza divina. Il caso del Dio di cui parla il mito di Jonas è ben diverso.

Il Dio di Israele, del resto, stando al racconto biblico, è un Dio che si rattrista dell’infedeltà del popolo eletto, un Dio che soffre come un amante tradito dalla sua sposa (ovvero Israele). Dio, il Dio unico (non la sua articolazione trinitaria) sta nella storia e vi partecipa in maniera empatica. Questo è il senso più profondo dell’Alleanza di cui si parla nella Torah.

Inoltre, questo Dio, come si è detto, è un Dio diveniente sin dal momento della creazione. Un Dio, per l’appunto, che si è calato nel Tempo, si è sottomesso al suo imperio. Il Dio perfetto, assoluto, coincidente con l’Essere in sé, deriva piuttosto dalla tradizione del pensiero greco, da Platone e da Aristotele. Diciamo che ha fatto il suo ingresso “contaminante” nella teologia giudaico-cristiana nei primi secoli dopo Cristo, ma non appartiene all’autentica tradizione biblica. Il Dio “apatico”, che non sente e non soffre le pene degli uomini, è coerente al modello greco, non solo al Motore Immobile di aristotelica memoria, ma anche agli dèi “materialisticamente” ed “edonisticamente” intesi di Epicuro. Nulla osta, pertanto, a che il Dio del mito narrato da Jonas sia coerente allo spirito e alla lettera della Torah. [Cito]

«Anche se prescindiamo dal fatto che la creazione in quanto tale, come atto e come esistenza del creato, rappresenta in ultima analisi un mutamento decisivo nella condizione di Dio — in quanto egli non è più solo —, il suo rapporto con ciò che ha creato, una volta che ciò esiste e si muove nel flusso del divenire, significa allo stesso modo che Dio fa esperienza di qualcosa in uno con il mondo; che il suo proprio essere viene intaccato da ciò che nel mondo “accade e tramonta”. Se Dio, quindi, è in una qualche relazione con il mondo — e questo è l’assunto cardinale di ogni religione — ciò significa che l’Etemo si è “temporalizzato” e che muta progressivamente attraverso le realizzazioni del processo cosmico.»

Questa interpretazione è alternativa anche alla visione dell’eterno ritorno dell’uguale, sempre di provenienza greca (e non solo: si pensi ad egiziani, babilonesi, ecc.), fatta propria da Nietzsche. Non esiste un punto zero. Il tempo non si piega su se stesso, non si auto-redime, non conquista alcuna innocenza. Se Dio guarda al mondo da una posizione di Trascendenza, non può esistere un ciclo cosmico che sia identico all’altro. Nella Storia, attraverso la Storia, Dio impara, prende consapevolezza, diventa Altro-da-sé. Una concezione, questa, che per alcuni versi assomiglia, come abbiamo già segnalato, a quella idealista-hegeliana. Fermo restando, vale la pena ribadirlo, che nel mito di Jonas Dio non è Ragione assoluta che si auto-conosce coincidendo con il Mondo. Dio rimane trascendente.

Il paragone più calzante, come dicevo poc’anzi, continua ad essere quello con Bergson. In questo passaggio del testo di Jonas, che cito, le assonanze con il pensiero di Bergson e con il suo lessico risultano evidenti: «Ogni nuovo mondo, che si presenta alla fine di quello che lo ha preceduto, subirà in ciò che eredita la memoria di ciò che è passato — o in altre parole: non ci sarà un’eternità indifferente, morta, ma una eternità che cresce col crescere di ciò che il tempo ammassa e riunisce.» Ecco, si pensi al termine “memoria” e alle metafore bergsoniane del “gomitolo di lana” o della “valanga”.

Terzo punto fondamentale, sempre in linea con la fede ebraica: Dio, sofferente e diveniente, si prende cura del mondo, partecipa alla storia del mondo. In che modo? Non a colpi di bacchetta magica o con irruzioni miracolistiche del soprannaturale (in linea con la visione spinoziana… anche se, a differenza del Dio-Natura di Spinoza, il Dio di Jonas è “empatico” rispetto al mondo, essendo Altro da esso). Dio si affida ad altri attori e fa dipendere la sua preoccupazione da essi. Gli altri attori siamo noi… Dio si è messo, continua a mettersi nelle nostre mani. Un atto d’amore, di fiducia? Una follia? Un Padre che si mette nelle mani dei figli… che consegna Abele a Caino, ascolta le ragioni dell’uno e dell’altro, non interviene per fermare la mano di Caino, ma si fa vittima con Abele. È giusto? [Cito]

«Egli è perciò un Dio in costante situazione di pericolo, un Dio che rischia in proprio. Che le cose stiano in questo senso, è ben chiaro, in quanto, se le cose stessero altrimenti, il mondo verrebbe a trovarsi in una condizione di perfezione assoluta. Il fatto che il mondo non sia perfetto, può significare o che non vi è un unico Dio oppure che quell’unico ha concesso qualcosa all’Altro da sé, da lui stesso creato: uno spazio per agire e per determinare insieme ciò che è oggetto della sua preoccupazione. Per questo motivo ho testé affermato che il Dio che si prende cura non è un mago. In qualche modo, mediante un atto di imperscrutabile saggezza o d’amore o per un qualsiasi altro motivo divino, ha rinunciato a farsi garante del proprio appagamento in virtù del potere che gli è proprio, dopo aver rinunciato con la creazione ad essere tutto in tutto.»

Un Dio che rischia in proprio, ma con la pelle degli altri… si potrebbe aggiungere a voler fare dell’ironia. D’altro canto, che gusto ci sarebbe a stare al mondo se il mondo fosse perfetto? Che ne sarebbe del dramma o della tragedia della vita? Cosa sarebbe la vita senza la morte? Il bene senza il male? Il male e la sofferenza, dunque, sono funzionali allo “svolgersi” del mondo e della vicenda umana. Un dono di Dio fattoci per ragioni imperscrutabili. Se non avesse abdicato all’Alterità, chiuso nella sua eterna e perfetta Identità, Dio, semplicemente, non avrebbe concesso alle creature, uomo compreso, di essere-al-mondo. [Cito]

«E con ciò ci avviciniamo al punto veramente critico del nostro avventuroso tentativo di proporre una teologia speculativa: questo non è un Dio onnipotente? Affermiamo a questo proposito, per legittimare la nostra immagine di Dio, di dover rinunciare alla dottrina tradizionale della assoluta, illimitata onnipotenza divina.»

Occorre, pertanto, rinunziare all’idea radicata nella tradizione teologica giudaico-cristiana (e non solo) dell’onnipotenza di Dio. Dal momento che stiamo affrontando la questione dal punto di vista “teologico” e non fideistico – e la “teologia”, come dice il termine stesso, è un tentativo, per quanto balbettante, di produrre un discorso razionale intorno al divino – ebbene, proveremo a valutare la questione in termini razionali. L’argomento che Jonas porta a sostegno della non-onnipotenza di Dio parte dalla considerazione del concetto di potenza. La potenza è tale nella misura in cui la si esercita rispetto a qualcosa di Altro-da-sé, come una forza-vettore in fisica. La forza la si misura rispetto all’oggetto cui essa viene applicata e alla resistenza che essa genera in risposta alla sua applicazione. Lo stesso vale, per esempio, per il concetto di libertà umana. La libertà ha senso rispetto alla necessità, al dover-essere di un determinato stato di cose. Una “onnilibertà” ovvero una “libertà assoluta” è un concetto di per sé autocontraddittorio. La libertà come la potenza, come la forza, si definisce sempre in relazione a qualcos’altro, ad una qualche forma di necessità, di resistenza, di passività. Come la libertà, dunque, la potenza è un concetto che va declinato in senso relativista, o meglio, “relazionale”. Si è potenti in relazione a qualcosa d’Altro. La potenza di Dio è tale in relazione alle creature. Concepire la potenza in senso assoluto significherebbe, peraltro, negare alla potenza il suo oggetto, renderla sterile, vuota di significato. Un Dio onnipotente sarebbe, dunque, un Dio autoreferenziale, autisticamente compreso in se stesso, non aperto, non creatore, non espansivo. Un Dio che ha cura (e la cura è l’aspetto pratico dell’amore inteso come caritas) non può essere “onnipotente”.

“Esistere”, in un certo senso, significa “resistere”. Ciò che è venuto ad essere, e che in quanto tale “ex-siste”, si sporge provvisoriamente da fuori come cosa a se stante (rispetto all’indeterminatezza dell’Essere, per dirla con Heidegger), la creatura “resiste” all’onnipotenza divina e, così facendo, contribuisce a definire il carattere relazionale del concetto di potenza. Tale concetto di potenza (relativa, relazionale) deriva, come abbiamo detto, dall’atto di autolimitazione divina che sta a fondamento della creazione. Con la creazione Dio cessa di essere onnipotente (o non-potente: si tratta di un livello “zero”, come l’immota somma zero della massa totale dell’universo prima che si producesse, in maniera inaspettata ed inopinata, la prima vibrazione, la prima fluttuazione energetica). La potenza deve essere per sua natura spartita, plurale. Senza pluralità non si dà alcuna potenza.

Oltre a questo argomento di ordine squisitamente razionale, Jonas porta un ulteriore, derimente, argomento di ordine genuinamente religioso: [cito]

«La onnipotenza divina può coesistere con la bontà assoluta di Dio solo al prezzo di una totale non-comprensibilità di Dio, cioè dell’accezione di Dio come mistero assoluto. Di fronte all’esistenza nel mondo del male morale o anche solo del male meramente fisico, dovremmo sacrificare la comprensibilità di Dio alla coesistenza in lui degli altri due attributi. Solo di un Dio totalmente incomprensibile si può affermare che è assolutamente buono e cooriginariamente assolutamente onnipotente e che, nonostante ciò, sopporta il mondo così com’è. Più in generale, i tre attributi in questione — bontà assoluta, potenza assoluta e comprensibilità — sono fra loro in rapporto tale che ogni relazione tra due di loro esclude il terzo. Questo è allora il problema vero: quali sono i due concetti veramente irrinunciabili, fondamentali per il nostro concetto di Dio e quale è il terzo che deve essere escluso?»

Quale dei tre attributi “tradizionali” va messo tra parentesi? A quale è più sensato o più pio rinunciare? Perché, in questo, l’evento “Auschwitz” è decisivo. Il male fisico e il male morale, per come è stato concepito dalla tradizione giudaico-cristiana, è, già di per sé, difficile da accettare e da giustificare. Ma il male radicale prodotto da Auschwitz rappresenta, secondo Jonas, uno scacco matto alla concezione tradizionale del divino. Se lo concepiamo buono ed onnipotente, allora, dobbiamo ammettere che Egli sia per noi del tutto incomprensibile. Non ha fermato la mano del boia, quella mano che ha stretto il capestro intorno al collo del bambino di cui dicevamo all’inizio, ha tollerato che l’industria della morte, o meglio, della “nientificazione” dell’Umano (ché la guerra moderna è, di per sé, morte su scala industriale), potesse dispiegarsi in tutta la sua odiosa ed intollerabile virulenza. Dio è rimasto in silenzio. Nessun fulmine si è abbattuto sul capo del boia. Nessun rintocco di campana per chi muore innocente, deliberatamente privato della sua dignità umana.

No. Dio dobbiamo continuare a considerarlo, in qualche maniera, “comprensibile”. Pena il venir meno dello stesso concetto di “religione”. Che religione sarebbe, che legame tra l’umano e il divino, quale patto tra Dio e il popolo eletto, che religione quella in cui non ci fosse modo di mettersi in relazione? Tutta la tradizione religiosa delle tre grandi religioni monoteiste si basa sulla “Rivelazione” divina, di cui il Libro sacro (Torah, Evangelo, Corano) rappresenta la cifra materiale, la parola incarnata.

Possiamo pensare a Dio negandogli l’attributo della Bontà? È concepibile un Dio malvagio, insensibile, un Dio schierato ad Auschwitz dalla parte dei nazisti? Poteva tutto. Poteva fermare il carnefice, sovvertire le leggi della fisica per impedire che i cristalli di Zyklon B al contatto con l’aria non sprigionassero il gas letale. Poteva. Ma non lo ha fatto. Dobbiamo concludere, quindi, che Dio fosse complice della politica del Terzo Reich, che “stesse con loro”, come recitava la scritta sulla cintura del soldato tedesco, Gott mit uns, “Dio con noi”? No, un Dio malevolo o disinteressato alle sorti dell’umanità o del popolo eletto, a vederla dal punto di vista ebraico, non possiamo concepirlo. Dobbiamo concludere con Jonas che Egli avrebbe voluto salvare il bambino appeso al capestro, ma non poté farlo. Dio non è onnipotente perché ha rinunziato alla sua onnipotenza con l’atto della creazione. Ha rinunziato all’onnipotenza per amore del creato e dell’uomo. Il male, dunque, è collegato alla potenza, all’uso che della potenza si decide liberamente di fare. [Cito]

«Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile (nel governo del mondo in cui noi unicamente siamo in condizione di comprenderla). Ma se Dio può essere compreso solo in un certo modo e in un certo grado, allora la sua bontà (cui non possiamo rinunciare) non deve escludere l’esistenza del male; e il male c’è solo in quanto Dio non è onnipotente. Solo a questa condizione possiamo affermare che Dio è comprensibile e buono e che, nonostante ciò, nel mondo c’è il male. E poiché abbiamo concluso che il concetto di onnipotenza è in ogni caso un concetto in sé problematico, questo è l’attributo divino che deve venir abbandonato.»

Fino a quel momento si era concepito Dio come onnipotente a prescindere dal fatto che avesse concesso parte della sua potenza all’Umanità. Una specie di “libertà vigilata”, come farebbe un buon padre di famiglia con un adolescente alle prime armi. Ti do una certa libertà, ma come te l’ho data posso togliertela in ogni momento (una specie di “costituzione ottriata”, elargita dal sovrano assoluto ai suoi sudditi). Ebbene, se tale “libertà vigilata” non è stata ritirata dinanzi all’inaudito e all’assurdo rappresentato da Auschwitz, vuol dire che Dio non era in condizione di farlo. Dio no, ma gli uomini sì. Non a caso, Jonas ricorda i “giusti tra le nazioni”, coloro i quali, nel momento della persecuzione e dell’Olocausto non si tirarono indietro, ma, mettendo a repentaglio la loro stessa vita, tesero il braccio a chi chiedeva loro aiuto, a chi aveva bisogno di aiuto. Dio tacque. Loro, invece, uomini tra gli uomini, fecero parlare le loro azioni in nome dell’umanità, per conto di tutta l’umanità. Come si legge nel Talmud: “Chi salva una vita umana salva un mondo intero”. Ecco, questo è un modo diverso di usare quella potenza di intervento “fisico” nel mondo cui Dio ha, di fatto, abdicato.

Qualcuno potrebbe legittimamente chiedere: che ce ne facciamo di un Dio impotente? A chi rivolgeremo le nostre preghiere? Che ne è della giustizia divina? Come ebbe a dire Primo Levi: «C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco ma non la trovo.» È un’affermazione forte che va compresa nel contesto culturale ebraico e non solo. Non si tratta di ribadire una qualche forma di ateismo o di nichilismo attraverso argomenti quali la morte di Dio predicata dal folle uomo della Gaya Scienza nietzschiana. Non è di questa morte di Dio che si sta parlando qui. Si può essere laici o atei, si può essere miscredenti a prescindere da Auschwitz. E molti ebrei internati in effetti lo erano. Qui si sta parlando del grido di dolore di chi ha visto morire il Dio in cui aveva fede, il Dio dei suoi Padri e dei suoi antenati, di chi ha visto, di colpo, spazzar via, mandare in fumo attraverso i camini dei crematori l’intero orizzonte esistenziale e culturale implicato dalla propria fede in Dio. Di chi si è visto strappar via l’anima e con essa ogni possibilità di consolazione, prima di esser costretto a separarsi dai propri cari, ad abbandonare le sue cose, a denudarsi, a rinunciare ad ogni dignità umana. Perché anche nella morte può e deve esserci dignità. In questa situazione limite, qualcuno ha imprecato dinanzi ai cieli vuoti di Dio, falsi e bugiardi, come il poeta ebreo-polacco Yizhak Katzenelson nella poesia Ai cieli all’interno della raccolta intitolata Il canto del popolo ebraico massacrato: [cito]

«Via! Non voglio alzar lo sguardo, non voglio vedervi, non voglio saper nulla di voi!

O cieli falsi e bugiardi, o lassù nell’alto bassi cieli! Quanto mi addolora:

Io vi credevo un tempo, vi confidavo gioia e tristezza, riso e pianto,

ma voi non siete meglio della schifosa terra, del grande mucchio di letame!»

In un passo de La notte,Elie Wiesel racconta dell’assassinio del suo Dio e della sua anima: [cito]

«Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata. Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto. Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai.»

Ad assassinare Dio nel celebre passo nietzschiano della Gaya Scienza siamo stati “noi”. Nietzsche usa il plurale “noi” ad indicare un gesto corale, epocale, che vede tutti quanti corresponsabili: [cito]

«Dio è morto! Dio resta morto! E noi l’abbiamo ucciso! Come potremmo sentirci a posto, noi assassini di tutti gli assassini? Nulla esisteva di più sacro e grande in tutto il mondo, ed ora è sanguinante sotto le nostre ginocchia: chi ci ripulirà dal sangue? Che acqua useremo per lavarci? Che festività di perdono, che sacro gioco dovremo inventarci? Non è forse la grandezza di questa morte troppo grande per noi? Non dovremmo forse diventare divinità semplicemente per esserne degni?»

Il caso Auschwitz è diverso. C’è chi Dio se lo teneva nel cuore. E la macchina di morte nazista ha tentato di estirparglielo da dentro. C’è chi, come il teologo israeliano Emil Fackenheim, ha rifiutato di arrendersi all’anonimato del “noi”, c’è chi, come ultimo atto di ribellione, ha difeso il Dio di Israele, non ha permesso ad Hitler di averla vinta. Per questo è necessaria una nuova teologia dopo Auschwitz: per non dargliela vinta ad Hitler, per non rendersi suoi involontari complici, per non dare seguito alla missione di odio e di annichilimento voluta dal Terzo Reich e dai suoi accoliti: [cito]

«Per quanto io respinga tutte le consolazioni e le razionalizzazioni con le quali la teodicea cerca di spiegare Hitler, io mi rifiuto di concedere a Hitler il potere, mi rifiuto di permettere a Hitler di essere il catalizzatore, la ragione decisiva del mio rifiuto di quel Dio con il quale per tremila anni i miei avi hanno vissuto e per il quale sono morti, nella buona e nella cattiva sorte. Rifiutate Dio per qualsiasi altra cosa: perché non esiste, per il suo silenzio, per la sua morte, ma non per Hitler: non concedete a Hitler questo potere, questa vittoria postuma.»

Il punto è questo: questo principio va salvaguardato a tutti i costi affinché il tempio interiore del Dio d’Israele, il solo ed unico come recita il credo ebraico “Ascolta Israele”, non venga raggiunto dalla putredine nazista, dall’odio insensato, dall’indifferenza abietta: il male non proviene da Dio, Dio non è responsabile del male. Egli è bontà assoluta, ma bontà impotente. Impotente come quella del bambino innocente di Elie Wiesel. Non c’è bisogno di abdicare al monoteismo, quindi. Il male non proviene né dal Dio di Israele, come si è detto, né da altri principi divini. Nessun dualismo, nessun manicheismo. Non esiste una creazione buona ed una cattiva, un Dio buono contrapposto ab origine ad un Dio malvagio, Ahriman, Satana o Belzebù. Né possiamo ascrivere Auschwitz ad un “difetto di forma”, ad una natura necessariamente imperfetta in quanto plurale e materiale rispetto alla perfezione identitaria del mondo delle idee platoniche. Non stiamo parlando qui del male che deriva da generazione e corruzione, da malattia e morte naturale, dai limiti della nostra perfettibile natura umana. Né, banalmente, del male morale con cui tutti quanti abbiamo a che fare, ma che si può, entro certi limiti, provare a capire esplorandone le ragioni contingenti, la sofferenza e la debolezza umana, il contesto storico o socio-economico. No. Qui siamo di fronte ad una forma inedita di male assoluto. E Jonas ci porta a concludere questo: non da Dio, né dal Demonio esso deriva, non al cielo dobbiamo alzare lo sguardo. È con la nostra libera coscienza che dobbiamo fare i conti. Con il tribunale interiore della Ragion Pratica kantiana. È lì che si gioca la partita. Libertà nel regno della fisica, della natura, libertà nel mondo popolato di uomini chiama responsabilità. Auschwitz deve invitarci alla responsabilità, deve risvegliarci brutalmente alla responsabilità, per fare in modo che la morte di coloro che vi furono assassinati, dopo essere stati privati della loro dignità, non sia stata vana. Responsabilità che, da una parte, significa memoria, ma che dall’altra, come vedremo – la storia, in un certo senso, è sempre “contemporanea” – significa impegno morale, civile e politico nell’oggi affinché le generazioni venture possano avere un futuro su questo pianeta o, detto in altri termini, che questo pianeta mantenga condizioni ambientali ed antropiche tali da consentire una vita il più possibile dignitosa all’umanità futura. [Cito]

«Solo con la creazione dal Nulla possiamo avere l’unicità del principio divino in uno con la sua autolimitazione, che dà spazio all’esistenza e all’autonomia di un mondo. La creazione fu l’atto di assoluta sovranità, con cui la Divinità ha consentito a non essere più, per lungo tempo, assoluta — una opzione radicale a tutto vantaggio dell’esistenza di un essere finito capace di determinare se stesso — un atto infine dell’autoalienazione divina. […] Rinunciando alla sua inviolabilità il fondamento eterno consentì al mondo di essere. Ogni creatura è debitrice dell’esistenza a questo atto di autonegazione e ha ricevuto con essa tutto ciò che può ricevere dall’aldilà. Dopo essersi affidato totalmente al divenire del mondo, Dio non ha più nulla da dare: ora tocca all’uomo dare. E l’uomo può dare, se nei sentieri della sua vita si cura che non accada o non accada troppo sovente, e non per colpa sua, che Dio abbia a pentirsi di aver concesso il divenire del mondo.»

Questa riformulazione teologica ha, dunque, il merito di salvaguardare l’idea di Dio e la religione ebraica, per chi volesse continuare ad essere in dialogo con la tradizione delle madri e dei padri. Tenere aperta questa strada, ecco, affinché chi lo voglia, sia libero di percorrerla, possa portare con sé, nel suo armamentario culturale e spirituale, questa straordinaria risorsa antica di tremila anni. A ben pensarci, non è cosa di poco conto. Se la riflessione filosofico-teologica di Jonas aiuta a lasciare una porta aperta all’idea di Dio dopo e nonostante Auschwitz – ognuno, di cultura ebraica o meno, valuterà per proprio conto la bontà e l’efficacia di tali argomenti – ebbene, il suo contributo risulterà tutt’altro che irrilevante. Lo dico, per quanto mi riguarda, da laico e da agnostico. Del mio agnosticismo, o, detto in altri termini, della mia mancanza di fede, non meno vanto, e non ne faccio una posizione identitaria, da difendere contro nemici più o meno immaginari. Sarebbe stolto affermare che di Dio non abbiamo bisogno. La fede in Dio ha indubbiamente una valenza consolatoria: di ciò generazioni e generazioni di esseri umani, sin dalla notte dei tempi, ci hanno dato e continuano a darci testimonianza. Affrontare le mille incertezze della vita, il male morale, la malattia e il destino di morte a tutti comune senza poter contare sul conforto della speranza e dell’orizzonte di senso offerto dal divino, lo dico in senso pragmatico e niente affatto ideologico, non ci facilita certo il compito. Comunque la si veda, si tratta di una risorsa in meno, e non di poco conto. Ciò non toglie che si possa essere anche laicamente ed agnosticamente sereni e speranzosi. O disperati e rassegnati. Non c’è dubbio: la questione riguarda lo spazio interiore di ciascuno di noi (sempre ammesso che lo si abbia questo spazio interiore!). Ecco, diciamo che la pratica della filosofia ci aiuta, comunque la si consideri, a mantenere vivo e ad espandere questo spazio interiore, affinché quell’evento che chiamiamo “pensiero” possa agevolmente manifestarsi. Come ogni funzionalità del nostro organismo, per così dire, anche il pensiero va coltivato, ripulito dalle erbacce dei pregiudizi e mantenuto in buona salute. Poi accadrà quel che deve accadere. Negare a priori la possibilità del divino ad una società, la nostra, sempre più materialista e idolatra, disperatamente alla ricerca di simboli e valori prêt-à-porter con i quali surrogare una prospettiva autenticamente spirituale o umanista, credo sia, comunque la si veda, un pessimo affare. O, per dirla con Emil Fackenheim: nemmeno a noi piace dargliela vinta ad un Hitler (e a chi vorrebbe emularne le gesta).

Oppure, per vedere la faccenda da una prospettiva ancor più laica, potremmo far nostre queste parole di Italo Calvino: [cito]

«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.»

Chiudiamo questa lezione con le parole di commiato dello stesso Hans Jonas: un invito alla modestia, al mantenersi aperti, al sapere di non sapere su cui si fonda ogni discorso che voglia essere autenticamente filosofico (e teologico): [cito]

«Signore e Signori! Tutto ciò è un balbettio. Ma anche le incomparabili parole dei grandi vati e uomini di fede, dei profeti e dei salmisti, erano un balbettio di fronte al mistero divino. E tale è anche ogni risposta alla domanda di Giobbe. La mia risposta, tuttavia, è diametralmente opposta a quella del libro omonimo della Bibbia. Mentre essa si richiama alla pienezza di potenza del Dio creatore, la mia si richiama alla sua rinuncia alla potenza. E nonostante ciò — per quanto la cosa possa risultare strana — l’una e l’altra intendono lodare e glorificare Dio: la rinuncia avvenne infatti acciocché noi potessimo essere. Anche questa, almeno così a me pare, è una risposta a Giobbe: il fatto che in lui Dio stesso soffre. Non possiamo sapere se questa risposta è vera; poiché di nessuna possiamo saperlo.»

IX Ai cieli

1

Così ebbe principio, incominciò…Cieli, dite perché, dite per chi?

Perché sulla terra tutt’intera ci tocca essere tanto umiliati ?

La terra, sordomuta, ha come chiuso gli occhi…Ma voi, voi cieli, voi avete visto,

stavate a guardare voi, lassù dall’alto; eppure non vi siete capovolti!

2

Non si è rannuvolato il vostro azzurro, scontato azzurro, splendeva falso come sempre,

il sole rosso come un boia crudele ha continuato a girare in tondo,

la luna, vecchia sgualdrina peccatrice, andava a passeggiare in voi la notte,

e le stelle sconce brillavano, strizzavano gli occhietti come topi.

3

Via! Non voglio alzar lo sguardo, non voglio vedervi, non voglio saper nulla di voi!

O cieli falsi e bugiardi, o lassù nell’alto bassi cieli! Quanto mi addolora:

Io vi credevo un tempo, vi confidavo gioia e tristezza, riso e pianto,

ma voi non siete meglio della schifosa terra, del grande mucchio di letame!

4

Io vi lodavo, cieli, io vi inneggiavo in ogni mia canzone, ogni mio canto-

io vi amavo come si ama una moglie; lei non c’è più, disciolta come schiuma.

io somigliavo sin dalla mia infanzia il sole in voi, il sole fiammeggiante del tramonto

alla mia speranza: “così svanisce la mia speranza, così muore il mio sogno!”

5

Via!Via! Vi siete fatti beffa di noi tutti, beffati il mio popolo, beffata la mia stirpe!

Da sempre voi ci sbeffeggiate: già i miei padri, i miei profeti sbeffeggiavate!

A voi, a voi – alzavano gli occhi, alla vostra fiamma si accendevano,

i più fedeli a voi qui sulla terra che sulla terra si struggevano per voi.

6

A voi anelavano….a voi per primi esclamavano: haazinu!- Ascoltate!

E solo poi la terra. Così il mio Mosè e cosi Isaia, il mio Isaia: shimu!- Udite!

E shomu! gridava Geremia: shomu! A chi, se non a voi? Perché d’un colpo vi siete estraniati?

O aperti e vasti cieli, luminosi e alti cieli! voi siete tali quali alla terra.

7

Non ci conoscete, non ci riconoscete più- perché? Saremo poi

tanto diversi, tanto cambiati? Ma se siamo gli stessi ebrei di sempre-

e anche molto migliori…Io no! Non voglio paragonarmi ai miei profeti, non devo,

ma loro, tutti quegli ebrei portati a morire, i milioni massacrati ora –

8

Loro sì, sono migliori: più provati, purificati dall’esilio! E quanto vale

uno dei grandi ebrei di allora di fronte a un piccolo, semplice, qualsiasi ebreo di oggi

in Polonia, Lituania, Volinia, in ogni terra d’esilio, – in ogni ebreo si lamenta e grida

un Geremia, un Giobbe disperato, un re deluso intona il Qohelet.

9

Non ci conoscete, non ci riconoscete più, nessuno: come fingessimo di essere altri.

Ma noi siamo gli stessi, gli ebrei di sempre, e come sempre pecchiamo contro noi stessi,

e come sempre rinunciamo alla nostra felicità e vogliamo ancora salvare il mondo-

E voi, com’è che siete così azzurri, voi cieli azzurri, mentre ci stanno massacrando, com’è che siete così belli?

10

Come Saul, il mio re, nella mia pena cercherò la maga,

troverò la strada disperata e scura per Endor,

e chiamerò fuori dalle tombe tutti i miei profeti e tutti implorerò: guardate, guardate in alto

ai vostri chiari cieli e sputate loro in faccia: “che siate maledetti, maledetti!”

11

Voi cieli stavate a guardare da lassù quando hanno portato i bambini del mio popolo

– per navi, su treni, a piedi, in pieno giorno e nella notte scura- a morire,

milioni di bambini, mentre li ammazzavano, hanno alzato le mani a voi- non vi siete commossi,

milioni di nobili madri e padre- non si è accapponata la vostra azzurra pelle.

12

Voi avete visto i Yomele di undici anni, semplice gioia! gioia e bontà,

e i Benzion, i piccoli geonim così seri e studiosi…consolazione di tutto il creato!

Avete visto le Hanne che li hanno avuti e consacrati a Dio nella sua casa,

e siete rimasti a guardare…Non avete nessun Dio in voi, cieli! Cieli da niente, cieli smagliati!

13

Non avete nessun Dio in voi! Aprite le vostre porte, cieli, aprite e spalancate

e lasciate entrare tutti i bambini del mio popolo massacrato, del mio popolo torturato,

aprite per la grande ascensione: tutto un popolo crocefisso con gravi sofferenze

deve entrare in voi…Ciascuno dei miei bambini massacrati può essere il loro Dio!

14

O cieli desolati e vuoti, o cieli come un deserto vasti e desolati,

io ho perso in voi il mio unico Dio, e a loro averne tre non basta:

il Dio degli ebrei, il suo spirito e l’ebreo della Galilea che giustiziarono, sono pochi:

ci hanno spediti tutti quanti in cielo, – o schifosa e vigliacca idolatria!

15

Rallegratevi, cieli, rallegratevi!- Eravate poveri, adesso siete ricchi,

che messe benedetta- tutto, tutto un intero popolo, che gran fortuna, vi è stato regalato!

Rallegratevi cieli lassù con i tedeschi, e i tedeschi si rallegrino quaggiù con voi,

e un fuoco dalla terra salga fino a voi e divampi un fuoco da voi fino alla terra.

23-26.11.1943

(da Il canto del popolo ebraico massacrato di Yizhak Katzenelson)

Francesco Dipalo

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