venerdì 17 Novembre 2023
Home2022 - Camigliatello SilanoIl singolo e la moltitudine - prima parte

Il singolo e la moltitudine – prima parte

Oso pubblicare i miei appunti che avevo iniziato a prendere alla fine di aprile, sperando di dare un piccolo contributo, purtroppo a distanza, alle vostre sempre adorabili argomentazioni. A questa prima parte seguirà una seconda parte, dedicata a Kierkegaard.

Un abbraccio a tutti voi e arrivederci a presto!

  1. Premessa

Proviamo un piccolo brivido di gioia nell’affrontare un argomento quale “L’umanità: famiglia solidale o covo di lupi?” che rientra appieno nell’antropologico. Lo studio intorno all’uomo è forse l’aspetto più affascinante del lavoro che affrontano gli uomini-filosofi cioè, vogliamo sperare, tutti noi. Se niente di ciò che umano ci è estraneo[1] la riproposizione della domanda di chi siamo, verso cosa ci orientiamo, cosa ci può rendere degni come essere umani, cosa ci può forse differenziare da tante altre meraviglie che ci offre la natura, continua ad essere attuale e foriera di nuovi sviluppi. Pensiamo alle sollecitazioni sempre più frequenti forniteci dallo sviluppo della robotica, e in particolare dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale (qualcuno suggerisce di togliere comunque il termine ‘artificiale’), le domande della bioetica alla luce delle disponibilità a clonare il nostro DNA, a modificare la nostra struttura genetica (anche grazie ai vaccini!!), a prolungare l’esistenza del nostro organismo forse più del dovuto o del necessario, ecc. Insomma, l’antropologia filosofica – dove va ricondotta a nostro parere il tema di questa edizione – può esserci molto utile.

Specifichiamo che uno sguardo antropologico non ci obbliga ad essere antropocentrici. La storia delle idee, infatti, ci indica che ricondurre tutto all’uomo come se fosse l’alfa e l’omega dell’universo in cui viviamo fa parte ormai delle idee-guida che dobbiamo abbandonare.

Mi ritaglio a questo punto uno spazio di riflessione sul termine di socievolezza, che sta alla base della tematica di questa edizione. Socievoli ma insocievoli? Perché stiamo insieme gli uni con gli ‘altri’ complessivamente intesi, a prescindere dalle relazioni parentali, amicali, intime, professionali? In che modo, soprattutto, dobbiamo relazionarci con gli ‘altri’?

Riduco ulteriormente questo amplissimo tema a due soli autori, che valgono come spunti di riflessione, ovviamente. Cosa ne pensano quindi Simmel e Kierkegaard.
Simmel dirà che è nella nostra natura essere socievoli, non possiamo farne a meno, mentre Kierkegaard ci suggerisce che essere ‘socievoli’ non è la strada maestra. La decisione riguarda l’esistenza individuale, e appartiene drammaticamente al solo individuo. Al ‘singolo’. Gli altri sarebbero solo la moltitudine indistinta, la ‘folla’.


[1] Come dicevano gli antichi: “homo sum umani nihil a me ali̯enum puto” (trad. dal latino: «sono uomo, niente di ciò ch’è umano ritengo estraneo a me”), Cfr. Publio Terenzio Afro, Heautontimorumenos (I, 1, 25).

  1. Simmel e la bontà della socievolezza

Tratterò prima di Simmel e poi di Kierkegaard, che lo precede cronologicamente, perché Simmel sceglie un registro lieve, positivo, nel descrivere la socievolezza. Avrà uno sguardo tenero nel mostrare il nostro comportamento sociale, anche quello più ‘leggero’. Il pensatore danese, al contrario, sarà spietato e non salverà nulla del nostro vivere insieme; ecco quindi la sua visione negativa della società con tutta l’opinione ‘pubblica’ che in essa è contenuta. Sperando quindi di rimanere in tema, riconduciamo Simmel a quella proposta di umanità solidale, che si ritrova nell’essere socievoli, per necessità ma anche per natura, mentre riconduciamo Kierkegaard a quella proposta che indica che non possiamo trovare niente di buono nello stare assieme, se vogliamo essere autentici. In fondo socialmente siamo un covo di lupi, secondo Kierkegaard. Diciamo meglio: non ci interessa stare in società se vogliamo veramente essere noi stessi. La nostra vera natura è la nostra singolarità. Cosa che spiegherò meglio, spero, successivamente.

Inizialmente tratteremo di un autore, sconosciuto ai più, ma la cui lettura ho trovato sempre fascinosa e piena di stimoli alla riflessione. Sto parlando di George Simmel[1a], tedesco, pensatore ibrido che naviga con nonchalance fra filosofia e sociologia, difficile da etichettare (ma questo non ci interessa). Cosa ci dice? La socievolezza è un indicatore forte del nostro stare in società, che non va banalizzato e ricondotto solo alle ‘buone maniere’. Ha scritto un testo specifico dal quale trarrò tutta una serie di notazioni a margine. Lo scritto ha il titolo ‘Sociologia della socievolezza’[2], alquanto esplicito, no?

Se la società è una forma di aggregazione superiore agli individui è anche vero che questi sono in carne e ossa, cioè hanno un’esistenza immediata, ancorata nelle sensazioni quotidiane e dove gli interessi degli uni con gli altri si intrecciano e motivano lo stare insieme. Ci sono ‘interessi economici e ideali, bellici ed erotici, religiosi e caritatevoli’. Il nostro essere è intenzionalmente portato ad essere per, o essere con, essere contro, tramite le istituzioni (quali lo Stato, la Chiesa, ecc.) contribuendo, ciascuno di noi, a intendere la società come un organismo dove avvengono scambi di energia. Così come a livello subatomico lo scambio di particelle dà luogo alle cose, alla materia che conosciamo e vediamo realmente, così la società che vediamo, nel suo insieme ‘omogenea’, in effetti è composta di parti che danno tutti il loro contributo. Il nostro contributo avviene in modo naturale, spontaneo, si può dire irriflesso, con la socievolezza. Ovvero intuiamo che dobbiamo contribuire alla società garantendo agli altri uno spazio loro, senza urtarli, aggredirli, offendendoli. La forma è quella delle ‘buone maniere’, che mettiamo in atto nelle occasioni ‘sociali’. Penso ai party così diffusi nella vita anglosassone, forse un po’ meno praticati da noi. Detto di passaggio, è ovvio che Simmel sta descrivendo la nostra società, quella industrializzata ed urbana, essenzialmente limitata alla vita di città, dove siamo in tanti. Il suo assunto teorico varrebbe molto meno nelle organizzazioni tribali e tecnologicamente non avanzate. Nella società rispettiamo, dice Simmel, il monito di Kant: “Qualsiasi azione è conforme al diritto quando per mezzo di essa, o secondo la sua massima, la libertà dell’arbitrio di ognuno può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una legge universale[3].

Anche l’arte e il gioco presentano gli stessi aspetti della socievolezza, ovvero propongono senza invadere, senza offendere. Non c’è un inganno preparato. Con il gioco cerco, catturo o mi nascondo, utilizzo l’astuzia, entro in competizione ma mantengo il sorriso. Non è una questione di vita o di morte. Con l’opera d’arte l’artista comunica tramite mille forme, le più libere, magari scandalizza, ma non vuole costringere nessuno. Gli stessi uomini più profondi sono affascinati dalla socievolezza, ed è questo ilprimo esito della loro saggezza. Volete riconoscere un uomo profondo? Misurate il suo grado di socievolezza. Più è alto più avrete la fortuna di avere a che fare con uomo che vede lontano. Mettono a proprio agio gli altri, senza invaderli (ma sappiamo che il tocco della torpedine, di stampo socratico, prima o poi colpirà). Simmel ha ragione nel dire che nelle culture occidentali, quando si pensa alla società, si pensa in primo luogo alla ‘socievolezza’. La definisce come la ‘forma ludica dell’associazione umana’. Se non si capisce ciò con si può indagare il più grande problema sociale: quanta rilevanza ha l’individuo rispetto alla specie, e come il primo può essere contrapposto alla seconda. Insomma, la socievolezza è necessaria per mantenere viva la società. Essa, la socievolezza, comprende l’amabilità, l’educazione, la cordialità e tutti quei tratti che ci rendono ‘frequentabili’. Occorre avere ‘tatto’ per autoregolarsi nella relazione con gli altri, sapere utilizzare le parole appropriate per comunicare ed evitare barriere che non aiutano la comprensione reciproca (lo sanno bene, diciamo noi, i docenti, i genitori, i formatori, i terapeuti, ecc.). Non appena la confidenza diviene più intensa dobbiamo scegliere se approfondire oppure lasciar perdere. La socievolezza è l’ouverture alla serietà, sia professionale (una riunione d’affari è sempre preceduta da atti ‘socievoli’) sia esistenziale. Una donna può scegliere di esibire una scollatura vertiginosa in una serata di gala e non trovare la cosa eccessiva, mentre non lo farebbe se vuole trascorrere una serata fra amici. L’occasione fa il contenuto. Manchiamo di tatto se non rispettiamo la forma della socievolezza che prevediamo di vivere. C’è quindi una soglia di socievolezza, che può condurre verso l’alto o verso il basso. Quando ci inoltriamo nel personale, se vogliamo essere vicini all’altro, lasciamo il nostro essere socievole e cambiamo postura, atteggiamenti, tono della voce, ecc. Se vogliamo stare lontano allora la socievolezza può continuare, ma in modo rigido e formalistico. Alla minima occasione fuggiremo dall’altro considerato avverso, ostile, noioso, ecc.

Realizziamo in questo modo un principio democratico. Ma la democrazia che mettiamo in atto con la socievolezza è più che altro una messinscena, perché ci preoccupiamo di strutturare una società ideale, dove tutti si rispettano e tendiamo ad appagare i desideri altrui. Ma fino a un certo punto. Rimane fondamentale che ci sentiamo veri ‘esseri umani’ nello stare insieme in questo modo, senza urtarci (questo sarà il punto di maggiore distanza che io vedo nell’impostazione di Kierkegaard).
La cortesia è un tratto caratteristico: ‘chi è più forte e importante si pone allora come uguale al più debole, anzi, si comporta come se l’elemento privilegiato, quello superiore, fosse l’altro’. Proviamo inizialmente per l’altro una stima specifica, senza averne un fondamento, che metteremo alla prova successivamente. I ‘giochi di società’ hanno questa prerogativa. La società ha sviluppato una specifica socievolezza anche nell’ambito dell’erotismo, che corrisponde al flirt, la forma più compiuta di civetteria. È un gioco lieve di concedersi o negarsi, senza assumere posizioni radicali. Senza il terreno della socievolezza il flirt non potrebbe attecchire. Anche la conversazione avviene nella socievolezza ed è la forma principale della vita di compagnia. Si parla per il gusto di parlare, senza avere scopi particolari. Si scelgono gli argomenti non per il loro contenuto ma perché così viene prolungato il piacere della compagnia. Ancora più profondo è il ‘guardarsi negli occhi’, ma qui siamo già ai confini. Quasi sempre la socievolezza si interrompe, per dirigersi verso l’alto o verso il basso, come abbiamo precedentemente detto. Nella conversazione rientrano a buon diritto la narrazione di aneddoti, piccole storie e anche barzellette. Se proviamo a esprimerci per soli concetti o in base ad astratte concatenazioni logiche si rompe l’incanto dello stare assieme democratico. È bello osservare, dice Simmel, che nelle occasioni sociali la conversazione forma o disfa gruppi senza nessun trauma, perché esiste la libertà del vincolo. È sbagliato dire che la socievolezza è superficiale. Attiene all’essenziale, almeno fino a quando la manteniamo collegandola alla realtà della vita. Se non lo facciamo e iniziamo a baloccarci o a irrigidirci, allora la stessa socievolezza viene meno, e diventa superficialità o schematismo.

Sono questi gli aspetti positivi della socievolezza. Potremmo ancora continuare ad analizzare, con gli strumenti che ci offre questo efficace fenomenologo della vita sociale, che è Simmel. Ma passiamo la parola a Kierkegaard…


[1a]

George Simmel è nato a Berlino nel 1858 ed è morto a Strasburgo nel 1918. Molto noto ai suoi tempi, protagonista dei dibattiti culturali berlinesi e del pensiero europeo di fine ‘800 e primi del ‘900. È quasi inutile dire che non è quasi mai menzionato nei manuali scolastici di storia della filosofia. Ha voluto fare come Max Weber, altro grande pensatore, supponiamo. Ovvero ha dato contributi ‘ellittici’ alla filosofia tramite la sociologia, un po’ per modestia e un po’ per cercare di descrivere ‘scientificamente’ fenomeni sociali circoscritti all’argomento. Importanti scritti sono: ‘Filosofia del denaro’, ‘La differenziazione sociale’, ‘Il conflitto della cultura moderna’. Ha indagato essenzialmente l’uomo contemporaneo calato nella vita delle grandi città, l’uomo urbanizzato. Segnaliamo in proposito, a chi ne sia interessato, il bellissimo testo: ‘La metropoli e la vita dello spirito’.

[2] Questo saggio lo ritroviamo nell’edizione italiana di raccolta dal titolo: GEORGE SIMMEL, Stile moderno. Saggi di estetica sociale, Einaudi, Torino 2020.

[3] I. KANT, La metafisica dei costumi (1797), Laterza, Roma-Bari 1983, p. 35.

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