mercoledì 22 Marzo 2023
Home2022 - Camigliatello SilanoIl singolo e la moltitudine – seconda parte

Il singolo e la moltitudine – seconda parte

3. Kierkegaard e la maledizione della socievolezza

Chiariamo subito un punto. Kierkegaard[1] non ha intenzione di sviluppare un’antropologia dell’essere umano. Indagare sulla natura di quello che siamo vale molto meno di quanto possa valere la salvezza. Pertanto, l’indagine del pensatore danese potremmo definirla di tipo etico, e ancor meglio, etico-religioso.

Il focus principale è che noi siamo individui, ci differenziamo gli uni dagli altri in base a caratteristiche uniche irriducibili a tratti esteriori o biologici. Noi siamo tanti ‘Io’. Gli ‘altri’, o il ‘noi’, in realtà non esistono. Kierkegaard terrà sempre fede alla dimensione del ‘singolo’ – è così che definisce l’individualità – e spererà di essere ricordato per questa nuova categoria filosofica. Fu un grande inattuale perché indagò l’individualità in un tempo storico e culturale in cui valevano le grandi narrazioni onnicomprensive, dove gli elementi o le parti dovevano essere tutte ricomprese in un tutto omogeneo e superiore. Insomma, si era alla ricerca di un sistema filosofico che spiegasse tutto a tutti. Il grande sistema che, polemicamente, Kierkegaard prende di mira è naturalmente quello di Hegel. Questo pensatore tedesco, così astruso e difficile, incredibilmente aveva successo fra i giovani e, soprattutto, fra le istituzioni. In particolare, il governo prussiano aveva opportunamente visto nel pensiero hegeliano un fondamento alla propria organizzazione statale. Secondo la concezione hegeliana è lo Stato che dà identità agli individui. Senza il riconoscimento dello Stato noi semplicemente non esisteremmo ‘socialmente’. Proviamo a pensare, oggi: chi certifica i nostri dati anagrafici, la nostra residenza, il nostro titolo di studi, addirittura la nostra morte (esiste pure il certificato di esistenza in vita che deve esibire il povero pensionato allo sportello per dimostrare di essere ancora vivo e riscuotere quindi la pensione!). Ecco, e torniamo a K., se immaginiamo la sua acuta sensibilità per il nostro essere individuale e quindi tutte le resistenze che mostra nel non voler diventare ingranaggio o pedina di un ‘sistema’, potremo seguire le sue tesi sulla ‘socievolezza’ in modo abbastanza lineare. Del resto, lo afferma chiaramente: ‘nessun sistema potrà contenere il mio essere’ e, se c’è una verità, questa è una ‘verità per me’. Questo non significa tuttavia che il soggettivismo diventi mero solipsismo, nel quale un soggetto pensa arbitrariamente quello che vuole.  Kierkegaard sottolinea piuttosto la dimensione dell’esistenza, quella nostra, quella che ci appartiene, da quando ci svegliamo la mattina; quella che incombe in errori e mancanze, quella in cui ci addossiamo le colpe delle scelte fatte che appartengono solo a noi e a nessun altro. Ecco, in questi termini, la nostra esistenza non è riducibile, in nessun modo, a un sistema filosofico. Detto in altro modo, i miei problemi li devo risolvere da me, senza rivolgermi ad una trattatistica onnicomprensiva. A qualcuno di noi potrebbe non piacere questa impostazione, che inevitabilmente sfocia in una visione drammatica della condizione umana. Siamo noi – singolarmente presi, ovviamente – che scegliamo, siamo noi che pecchiamo e quindi è nostra la responsabilità e la colpa. Questo genera il sentimento dell’angoscia, che Kierkegaard mette in evidenza nel XIX secolo e che verrà compreso bene solo a partire dagli anni Venti del Novecento, dopo l’immane disastro della Prima guerra mondiale e i foschi presagi della guerra mondiale successiva.    

Kierkegaard, con il suo esistenzialismo, così come Nietzsche, con il suo nichilismo, sono diventati nostri contemporanei. È più compreso e accettato il secondo piuttosto che il primo, perché Kierkegaard propone una scelta di tipo religioso, forse anacronistica. Nietzsche è più facile: ci spinge a fare quello che vogliamo (Volontà di potenza!), senza vincoli. Kierkegaard dice che la salvezza passa dalla fede in Dio, ma la fede è sempre una scelta drammatica, che non rasserena l’uomo che la sceglie. La fede è realmente un paradosso dell’esistenza, perché è incomprensibile. Insomma, per avvicinarsi a Dio dobbiamo allontanarci dagli uomini. È inevitabile. Quindi, cosa volete che Kierkegaard pensi della cosiddetta ‘socievolezza’, graziosa e gentile, che ha delineato Simmel?

Kierkegaard è sempre uno scrittore accattivante, che ha pubblicato molti testi dove lui si celava sotto i nomi di altri personaggi, alcuni inventati e alcuni allusivi, nei quali proiettava aspetti della sua personalità. Ma noi preferiamo seguire invece il suo Diario intimo[2], un enorme accumulo di appunti presi nel corso della sua vita che per fortuna nostra sono stati selezionati e suddivisi, per quanto era possibile, in macro argomenti[3]. Uno di questi ha il titolo ‘Il Singolo e la Folla’. Seguiamolo.

Il pensatore danese attacca lo Stato di Platone e ancor più quello di Hegel, che definisce quel ‘parolaio’, perché ci fanno credere che, se siamo ‘molti’, ci sentiamo così superiori al Singolo. Ma Dio si preoccupa di ciascuno di noi, cioè dei Singoli, e si è preoccupato nel modo più intenso e drammatico, dato che il segno più evidente è stato quello della Croce. Provvidenza e Redenzione vanno quindi ricondotte alla disperazione. Ma chi capisce ciò? Il nostro essere indaffarati ogni giorno ci allontana dalle riflessioni lunghe e difficili, che si possono svolgere efficacemente solo nello stare soli. Il poeta e l’uomo religioso vivono con particolare intensità questa condizione. Una religione che inviti a gridare piuttosto che a parlare sottovoce è una religione indecente. Già ai suoi tempi Kierkegaard intravede il planetario successo della Folla, che è diventata l’onnipresente tiranno dove vengono annullate le nostre individualità. La stampa che allora diventava sempre più diffusa era il mezzo principale per veicolare l’appiattimento ‘sociale’. Detto en passant, cosa direbbe oggi Kierkegaard dei social? Chi si oppone alla folla verrà inevitabilmente perseguitato e disprezzato. Gli antichi vedevano nella Folla il principale pericolo e hanno formato il ‘tiranno’, che almeno è un uomo solo (Re o Papa) e quindi è facile da abbattere. Ma adesso il tiranno sono milioni. E lo dice chiaramente: il nuovo tiranno è l’opinione pubblica. Siamo tutti, ovvero nessuno.

Il Cristianesimo si regge perché si appella al singolo, non alla folla. Per diventare veri cristiani dobbiamo diventare singoli, ovvero combattere la folla. Dio vuole entrare in contatto con il Singolo, e viceversa. Senza singolarità non ci può essere Cristianesimo. È opportuno dire che questo assunto è più vicino alla riflessione dei pensatori del nord Europa piuttosto che a quelli mediterranei, forse più interessati alla vita in comune e alla pietas e all’agape. Ma per Kierkegaard il discorso è chiaro. Difatti vuole provare che i veri cristiani, quelli di una volta, sceglievano il convento, ovvero diventavano singoli. Adesso bisogna confondersi con gli altri, annullando il nostro ‘Io’.

Si è adesso arrivati al grande errore che il rapporto fra singolo uomo e Dio sia una forma di egoismo ed è invece il contrario. Si vuole abolire il rapporto con la coscienza ed è proprio quello che accade con lo ‘Spirito Oggettivo’ di Hegel. Diventiamo così i ‘facchini’ dello Spirito’!! Kierkegaard si paragona addirittura all’eroe greco delle Termopili, il re Leonida, che si sacrificò per difendere quella gola stretta. Per il pensatore danese la gola stretta, per la quale è pronto a sacrificarsi, è la categoria del ‘Singolo’ che il tempo dell’esistenza – individuale – dovrà attraversare. Un po’ di vanità la percepiamo quando Kierkegaard vuole che l’epitaffio da mettere sulla sua tomba debba essere: “Quel Singolo”.

“Eppure se io dovessi domandare un epitaffio per la mia tomba, non chiederei che “quel Singolo” – anche se ora questa categoria non è capita. Lo sarà in seguito. Con questa categoria “il Singolo”, quando qui tutto era sistema su sistema, io presi polemicamente di mira il sistema, ed ora di sistema non si parla più. A questa categoria è legata assolutamente la mia possibile importanza storica”[4].

Se non ci fosse la possibilità di pensare il Singolo, il panteismo avrebbe vinto su tutta la linea, perché il panteismo è una distorsione della temporalità che vuole essere spacciata per l’eternità. Socrate come singolo ha trionfato sul paganesimo! Diventare singoli non si può insegnare, non è compito per i docenti, ma è una attività eminentemente etica. La ‘folla’ è diventata il totem che ingloba tutto, così come il denaro: “Come si gioca al denaro, così la ‘Folla’ è tutto”. Ne consegue che chi vuole testimoniare la verità deve combattere la ‘Folla’, magari fino a diventare un martire.

Come siamo distanti da quello che ci diceva Simmel! Era bello e intrigante evidenziare gli aspetti ‘leggeri’ del nostro stare presso gli altri: il ‘tatto’, la ‘cortesia’, il ‘flirt’, la ‘conversazione’, ecc. mettevano in rilievo la nostra disposizione ‘sociale’. Il terribile danese dice invece che dobbiamo combattere questa nostra disposizione, ammesso che sia naturale. Il nostro compito, quello di vivere una esistenza degna (leggi ‘cristiana’), lo possiamo assolvere unicamente da soli, così come è solo Dio e come è stato solo, alla fine, il Cristo.

La folla si concretizza nei giornalisti, che sono gli ‘uomini del momento’! Questi non lo capiscono, anzi non osano capirlo, perché verrebbe distrutta la loro ragion d’essere. La massa non può intendere la singolarità. L’astratto ‘popolo’ è un concetto che dovrà essere superato, ma occorrerà del tempo:

“Passerà ancora del tempo prima che la storia del mondo arrivi davvero a possedere il concetto di Singolo. Prima bisognerà frantumare gli Stati: più grande è il progresso, più piccolo sarà lo Stato. Se tutti avranno da partecipare al governo, lo Stato dovrà essere piccolissimo”[5].

Il governo di un popolo sarebbe la migliore rappresentazione dell’inferno. La Folla è il male del mondo.

Crediamo molto poco che Kierkegaard sia un potenziale liberista o un anarchico che vuole ridurre al minimo la presenza dello Stato. Kierkegaard pensa solo eticamente. Vero è che Kierkegaard attacca la ‘maggioranza’, la ‘più pazzesca di tutte le categorie’, ma anche Eraclito aveva detto: ‘Uno per me vale diecimila’. Ma non riteniamo che il suo sia un atteggiamento di elitarismo o di aristocraticismo.

Chi ha crocifisso Gesù? La folla, ovviamente. Gesù è la verità, ma la folla ha preferito Barabba!!

Attenzione, Kierkegaard non ci dice che dobbiamo evitare a tutti i costi gli altri. Non c’è misantropia in lui. Lui insiste sul fatto che dobbiamo avvicinare gli altri come singoli. Deve conversare con tutti non per arringare la folla, ma proprio per frammentarla, disperderla. Ritorna il passo del Vangelo: ‘Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra…”. Guardate la vostra coscienza… La folla si è dispersa…

La comunità è differente dalla folla, perché è una somma di singoli, che si mantengono tali, mentre nella folla dobbiamo rinunciarvi.

Un vero pensatore deve avere la forza di dire ‘Io’, fare diversamente sarebbe inumano:

“La mia azione così è quella di un precursore, fino a quando verrà colui che nel senso più rigoroso dica: Io”[6].

I giornali, il pubblico, il pastore hanno proprio paura a pronunciare la parola ‘Io’, deponendo la loro personalità. La Folla attacca il singolo, il suo nemico:

“Attaccare un Singolo, nel nome della folla, del pubblico, è mondanità vigliacca’. Di solito nessuna lotta è mai stata più vile di quella della stampa”[7]. 

La calunnia è infatti un venticello!!

Nella tragedia antica dominava il destino che tuttavia era invidioso dell’individualità spiccata, l’eroe, e lo schiacciava. Il coro non si accorgeva di questa lotta. Adesso il coro si è dissolto, ed è subentrato il pubblico, che assiste passivamente alla lotta che compie il Singolo. Tutti gli eroi, compresi Socrate e il Cristo, sono individualità isolate. Erano i medici e invece venivano considerati il male da estirpare. L’oggettività, ammonisce Kierkegaard, deve essere salvata con la ‘soggettività’  e Dio ci costringe a essere infinitamente soggettivi.

Ultima considerazione. L’uomo è una eccezione della natura. Mentre nell’animale la dimensione dominante è il genere (o la specie), la caratteristica principale dell’umanità è il Singolo, che è quindi superiore al genere (o alla specie). Per questo siamo affini a Dio:

“L’uomo è affine a Dio. Ma Dio non può essere affine a un genere animale bruto. Dio è spirito, e sarebbe una cosa bestiale ch’Egli fosse affine a un ‘genere’. Egli non può essere che affine al Singolo, e solo il Singolo può avere un’affinità con Dio”. 

Nella vita eterna che viene auspicata, il genere non avrà alcun senso.

Ma come si fa ad essere e mantenersi singoli? Rimanendo in silenzio, dinnanzi agli altri. Scelta radicale, sicuro. Se ci mettiamo a parlare con gli altri del problema di Dio, in qualche modo diminuiamo l’intensità del rapporto. Fare gruppo come insieme di cristiani è intrinsecamente sbagliato. Questo è proprio l’opposto del Cristianesimo. Ormai tutti conosciamo la dottrina del Cristianesimo, occorre adesso adoperarsi, anche sacrificarsi per essere ‘singoli’ cristiani. La chiacchiera sul Cristianesimo è solo una diffusione numerica, e il numero ‘calpesta l’Assoluto’.

Andiamo alla conclusione: il compito della nostra esistenza, che non possiamo delegare a nessun altro è quello di individuarci il più possibile (principio di individuazione) e solo così possiamo aprirci a un vero rapporto con l’Assoluto (il Dio cristiano) e tutto ciò lo dobbiamo fare in solitudine. Altrove Kierkegaard dirà che Abramo doveva scegliere se sacrificare suo figlio Isacco a Dio, come questi gli aveva ordinato, oppure far prevalere l’amore genitoriale, salvando Isacco ma offendendo Dio. Abramo era pronto a sacrificare il figlio! Questa è la fede, questo salto nell’abisso! E’ l’essenza del rapporto fra il Singolo e ciò che è assolutamente Altro rispetto a noi. La fede oltre a essere irrazionale procura anche disperazione.

Se riteniamo che questo discorso sia ancora attuale è in ogni caso ben difficile da digerire. Forse è venuto meno lo slancio religioso e l’itinerario della mente a Dio impostato da Kierkegaard ci appare veramente sfocato e antiquato, oltre che terribile. E tuttavia l’angoscia delle scelte, l’incombere del nulla, i salti che facciamo nel corso dell’esistenza, il valore della solitudine quando dobbiamo veramente ponderare le grandi decisioni, sono tasselli che ancora aspettano di essere valutati con attenzione.

Essere socievoli è una maledizione, essere insocievoli è la prima tappa dell’esistenza autentica.

Riportiamo infine il dissidio che provava l’uomo Kierkegaard quando scopriva in se stesso le caratteristiche della sua socievolezza e ne provava ribrezzo, e immaginiamo che Simmel lo ascolti, con gli occhi sgranati:

“Vengo ora da una riunione di società, dove ero l’anima; i motti di spirito scoppiettavano sulle mie labbra, tutti ridevano, mi ammiravano – ma io me ne andai. Ecco, qui ci vorrebbe un tratto lungo come il raggio della traslazione della terra _________________________________________________________

Ed io qui me ne andai, deciso a bruciarmi le cervella. 18 aprile1836.”[8]

Povero Kierkegaard! E poveri quelli che vogliono provare ad essere ‘Singoli’…


[1]

Alcune informazioni sul pensatore, ammesso che non lo conosciate:
Søren Aabye Kierkegaard è un filosofo danese. Nacque a Copenaghen nel 1813. È considerato l’antesignano dell’esistenzialismo. Trascorse praticamente tutta la sua esistenza a Copenaghen. Ultimo di sette fratelli, affrontò il lutto di ben cinque di loro quando ancora non aveva vent’anni. Questo, unitamente ad un’educazione rigida e formale impartitagli dai genitori, fecero di Kierkegaard una persona malinconica e riflessiva. Venne educato dal severo padre, il quale, estremamente religioso, riteneva di essere soggetto ad una maledizione divina a causa di una sua grave e non meglio precisata colpa. Questa idea forse nacque in seguito alla morte prematura della moglie e dei suoi cinque figli. Il padre pensava inoltre che questa maledizione sarebbe ricaduta sul figlio. Nel 1840 si fidanzò con Regina Olsen, una ragazza di diciotto anni, ma dopo un anno Kierkegaard la lasciò. I pochissimi viaggi che il filosofo fece nel corso della sua vita avvennero per recarsi a Berlino. Qui seguì alcune lezioni di Schelling, ma, deluso da certe idee che furono espresse, abbandonò le lezioni e tornò a Copenaghen. Kierkegaard morì nel 1855, rifiutando i sacramenti. Aveva solo 42 anni.

(Cfr. libreriauniversitaria.it

[2] Dobbiamo ringraziare l’opera dello studioso italiano Cornelio Fabro, sacerdote (1911-1995). È stato un grande interprete e traduttore di Kierkegaard, dal danese all’italiano. Il solo Diario, alla sua terza edizione, si compone di ben 12 volumi!

[3] Ci riferiamo alla seguente edizione: SOREN KIERKEGAARD,  Diario, ed. ridotta a cura di Cornelio Fabro, BUR, Milano 2013, versione digitale.

[4] Kierkegaard, op. cit. Nella versione digitale non può essere indicato il num. di pagina. Questo vale anche per le citazioni successive.

[5] Ibidem.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem.

1 commento

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Articoli recenti

DAL 1 AL 4 GIUGNO LUNGO WEEK-END A GIBILROSSA (PALERMO)

Volentieri pubblichiamo, anche per i nostri amici delle vacanze filosofiche, la bella iniziativa proposta da Augusto Cavadi. Un fine settimana lungo nei pressi di...

Commenti recenti

NEWSLETTER

ISCRIVITI PER RICEVERE LE NOSTRE NEWS!

Non inviamo spam! Leggi la nostra Informativa sulla privacy per avere maggiori informazioni.

Ultime dai siti/blog dei nostri amici

2022 - Camigliatello (2)

41 photos
2 views

2022 - Camigliatello

55 photos
42 views

Archivi